Orazio e lo Shabbat

anna segreLa satira I,9 di Orazio, nota come la satira del seccatore, è tra le più frequenti nei libri di latino perché considerata facile e divertente. È interessante anche perché mostra (pur con una battuta che oggi sarebbe considerata assai poco politically correct) come gli ebrei nella Roma di Augusto fossero una comunità ben conosciuta, di cui si potevano citare sinteticamente usi e credenze dando per scontato che il lettore sapesse di cosa si trattava. Quest’anno mentre ne parlavo con gli allievi mi sono resa conto che il testo offre anche lo spunto per una riflessione sullo Shabbat.
Credo che la vicenda sia nota: Orazio è abbordato per strada da un seccatore di cui non riesce a liberarsi. A un certo punto incontra un amico e, sperando che gli venga in aiuto, gli ricorda un’immaginaria questione di cui dovevano discutere in privato; l’amico, che ha capito l’antifona ma si diverte a vedere Orazio nei guai, risponde che non può trattare affari di sabato (c’è anche un “trentesimo” che viene interpretato in vari modi – forse capo mese, forse Pesach, forse una festa ebraica volutamente immaginaria – su cui non serve discutere qui), per non mancare di rispetto agli ebrei (evito volutamente la traduzione letterale). Non è strano che Orazio voglia far ridere i lettori mostrando l’amico che finge di rispettare una bizzarra regola di una bizzarra comunità presente a Roma; dovrebbe apparire più strano, invece, che i lettori di oggi – autori di libri di testo, insegnanti o allievi – sembrino condividere il sarcasmo del poeta a proposito dello Shabbat: nella replica di Orazio, che dichiara di non avere nessuna “religio”, questo termine viene tradotto quasi sempre con “superstizione”, e le note e spiegazioni del testo sembrano dare per scontata questa definizione, come se un giorno alla settimana in cui non si parla di affari fosse un’evidente assurdità. Eppure anche i cristiani hanno un giorno settimanale di riposo, e, per quanto la domenica non sia lo Shabbat, almeno nel mondo della scuola è sostanzialmente intoccabile. Dunque, la satira potrebbe essere un ottimo spunto per far riflettere i ragazzi sul significato e sull’importanza di un giorno di riposo settimanale.
Altrove Orazio per proclamare con orgoglio l’eternità della propria poesia paragona la sua durata a riti della religione romana. Per fortuna gli è andata meglio di così: i suoi testi sono ancora letti mentre quei riti pagani non si celebrano più da molti secoli. Invece quella strana comunità oggetto del suo scherno è ancora viva e vegeta con la sua “religio” e quella bizzarra usanza del risposo settimanale (anche se talvolta i libri di latino sembrano non essersene accorti) non solo continua ad essere rispettata ma ha contagiato, in misura maggiore o minore, buona parte dell’umanità.

Anna Segre, insegnante

(7 marzo 2014)