Nazionalisti e socialisti. Un film già visto?
Grande è il disordine sotto il cielo e la situazione è tutto fuorché «magnifica», come avrebbe invece detto il «grande timoniere» Mao Tze Tung. La prospettiva di uno sfaldamento dell’Ucraina è sotto gli occhi di tutti. La crisi che attanaglia Kiev ha rubato il posto all’oramai ripetitiva carneficina siriana, all’impasse libica (lo scontro tra forze conservatrici e gruppi «rivoluzionari», il fallimento delle elezioni popolari per l’Assemblea costituente, il frazionamento e la competizione tra milizie contrapposte), alla transizione incerta in Afghanistan (dove la missione Nato va verso la sua conclusione, il 5 aprile prossimo si terranno le elezioni presidenziali mentre l’Arabia Saudita, l’Iran, la Cina e la Russia si contendono corposi spazi di influenza), alla progressiva disintegrazione della sovranità moldava (storicamente un’area di transito tra Russia e penisola balcanica, dove la regione speciale autonoma della Gagauzia, turcofona, è attraversata da forti venti separatisti, così come la Transnistria, russofona e sostenuta da Mosca) e alle persistenti contorsioni e ai mal di pancia che attraversano l’Africa centrale e mediterranea.
La separazione della Repubblica autonoma di Crimea, a maggioranza russa (per circa il 60 per cento, mentre il 24 per cento della restante popolazione è ucraina e il 12 per cento tatara) – peraltro “gentilmente” offerta dal Nikita Krusciov all’Ucraina nel 1954 (in occasione del trecentesimo anniversario del trattato di Pereyaslav tra i cosacchi ucraini e la Russia, atto dichiarato poi nullo, in tempi a noi più prossimi, dalla Duma russa per incostituzionalità), all’interno delle logiche di equilibrio di potere dell’allora Unione Sovietica -, sembra oramai essere nell’ordine delle cose. Le divisioni e le lacerazioni non derivano solo dall’identità degli abitanti della penisola, caso a sé, ma dalla secca contrapposizione con quella dei residenti nelle regioni occidentali del Paese, dove invece la lingua comune è l’ucraino, insieme agli idiomi delle minoranze ungheresi, romene e tatare, e i sentimenti politici sono dichiaratamente filo-europei. La dialettica politica tra russificazione e autonomizzazione culturale, linguistica e politica è peraltro costitutiva delle vicende moderne e contemporanee di quei luoghi.
L’Ucraina odierna ha sommato in sé regioni tra di loro diverse per formazione culturale e regime politico, acquisendo territori, ad oriente, già parte dell’Impero russo e ad occidente, invece, componenti dell’Austria-Ungheria. La dissoluzione dei vecchi equilibri, e la ricomposizione degli interessi sotto l’egida dell’Urss, hanno solo sopito divergenze e traiettorie altrimenti in contrasto tra di loro. La nascita, tra l’agosto e il dicembre del 1991, di una entità statale indipendente, obbligata a relazionarsi con Mosca ma attraversata da tensioni nazionaliste, non ha quindi risolto nulla, semmai costituendo il terreno per il ripetersi di crisi che si sono trascinate, tra periodi di maggiore e di minore intensità, fino ad oggi. Il condimento obbligato di questa fisionomia storicamente variegata è il caos economico nel quale si trova il Paese.
Se il trascorso premier Viktor Yanukovich, dinanzi a due grandi problemi che attanagliano Kiev, la dipendenza energetica e il debito pubblico, si era fatto garante nei confronti di Putin e Medvedev, negoziando un prestito dell’ordine di una quindicina di miliardi e una riduzione di circa un terzo del prezzo del gas russo, ora le cose sono tornate ad essere tutte in discussione. In realtà le casse di Kiev sono a secco e il nuovo governo d’emergenza, presieduto da Arseniy Yatsenyuk, è improbabile che possa fare fronte, tanto più se da solo, ad una situazione così drammatica. Se il Fondo monetario internazionale è stato chiamato ad intervenire, nel mentre l’Unione europea non ha gli strumenti politici per influenzare le scelte di Putin, sarà soprattutto quest’ultimo, giocando sui diversi registri dei separatismi concorrenti oggi in scena, ad avere un ruolo decisivo. Putin, peraltro, già da adesso sta facendo scontare, con gli interessi, la campagna inscenata da Kiev dopo il crollo dell’Urss, quando si adoperò per “ucrainizzare” la Crimea, alimentando i malumori soprattutto dei tatari; un tentativo abortito che si concluse, per l’appunto, con la concessione dello status di repubblica autonoma alla penisola. La quale, nell’ottica moscovita, ricopre a tutt’oggi una rilevanza strategica, ospitando a Sebastopoli buona parte della flotta del Mar Nero, secondo un accordo rinegoziato nel 1997.
Si tratta, geopoliticamente parlando, dell’anello di congiunzione verso il Mediterraneo e l’Oceano indiano nonché il punto di gestione dell’area caucasica meridionale. La marina russa è inoltre garante dei gasdotti, ovvero del libero commercio, ovviamente secondo gli interessi politici ed economici del proprio Paese. La Crimea è peraltro un territorio economicamente sfiancato. Il rating del suo debito è qualificato da Standard & Poor’s a CCC+, ovvero spazzatura, nel gergo più felpato dell’agenzia altrimenti definito a natura «altamente speculativa». In questo quadro, il destino della residua componente ebraica, al 2012 composta da circa 67mila elementi censiti (di contro ai due milioni e settecentomila del 1941 e ai 487.555 del 1989), ma ad una presenza reale probabilmente di quasi 200mila soggetti, è incerto. Il nazionalismo ucraino, del pari ai movimenti di tale natura nei paesi circostanti, ha spesso coltivato posizioni di sospetto se non di dichiarata avversione nei suoi riguardi. Così il partito Svoboda («Libertà», nato nel 1991 con il nome di «Partito nazional-socialista d’Ucraina»), di estrema destra, che conta 38 seggi (sui 450 complessivi) nel parlamento monocamerale di Kiev, la Verchovna Rada (il «Consiglio supremo»), pari al 10,4% dei voti, ma con un seguito probabilmente ben più ampio, capace di raccogliere un quinto dei consensi tra i 46 milioni e mezzo di cittadini ucraini. Di fatto Svoboda ha accesso ad alcune posizioni chiave nel nuovo governo tra le quali il Comitato di sicurezza nazionale, il ministero della Difesa, quello dell’Agricoltura e delle Risorse energetiche.
Nelle proteste di piazza che hanno portato alla caduta di Yanukovich è stato protagonista in prima fila, attraverso la partecipazione di gruppi paramiliari riconducibili, a vario titolo, alla sua regia. Così anche per altre forze politiche più “moderate”. Dopo di che, parlare di una piegatura apertamente e definitivamente antisemita delle proteste è senz’altro eccessivo e ancora prematuro. Già è stato segnalato, anche su questa newsletter, come il rischio possa concretamente derivare non solo dalle pulsioni indiscutibilmente aggressive del neofascismo locale ma anche dall’uso disinvolto, in chiave delegittimatoria delle autorità nazionali, che la Russia di Putin va facendo dell’accusa, per accreditare sempre di più la sussistenza di uno stato di emergenza nel quale Mosca sarebbe “obbligata” ad intervenire per evitare ulteriori disordini. Di certo, comunque, la situazione è delicatissima ed il rischio che dalla crisi di nervi si passi alla tempesta di fuoco è, purtroppo, assai concreto.
Claudio Vercelli
(9 marzo 2014)