Oylem Goylem

Francesco Moisés BassanoOylem Goylem (in yiddish, “il mondo è scemo”). Non sto citando il disco omonimo del discusso Moni Ovadia, ma le numerose contraddizioni e anomalie, che occorrono puntualmente nella realtà quotidiana.
Ultimamente in Europa, come una vera e propria sindrome, la macellazione rituale ebraica (shechitah) e islamica (dhabibhah) è divenuta oggetto di critiche e attacchi, sferrati da autorevoli veterinari e politici i quali ne richiedono il bando definendola “crudele, assurda, e indegna nei confronti degli animali”. Così che ad un tratto, tutti si riscoprono impavidi e illuminati animalisti.
Trovo però strano, che tra le stesse autorità o istituzioni governative, vi sia una così viva premura affinché un animale venga stordito prima di essere ucciso, ma vi sia al contrario un dibattito decisamente ridotto nei riguardi della situazione negli allevamenti intensivi, dove gli animali versano spesso in condizioni impensabili e deleterie, trascorrendo un’intera esistenza in uno spazio chiuso e ristretto con il solo fine di andare al macello per poi diventare cibo per gli esseri umani. Con tutte le problematiche che ne potrebbero derivare di natura, oltre che etica, ambientale o igienico-sanitaria. O che al tempo stesso, vi sia un dibattito pressoché assente nel pensare ad attuare politiche o pratiche di sensibilizzazione per ridurre l’eccessivo consumo di carne nel mondo.
Il senso della shechitah – riprendendo liberamente le parole del libro “Guida alle regole alimentari ebraiche” del rav Riccardo Di Segni – dovrebbe essere quello di sacralizzare, e dunque legittimare, l’uccisione dell’animale, con la consapevolezza e senza mai scordare l’imprescindibile crudeltà del gesto, che altrimenti, verrebbe eseguito attraverso un’azione di routine meramente meccanica e ordinaria, come la semplice chiusura di un qualunque interruttore. Del resto, da quanto è scritto nel Bereshith, l’umanità primitiva era vegetariana, viene permesso di cibarsi anche di carne o di pesce, soltanto dopo il Diluvio Universale, quando la terra e l’uomo erano ormai corrotti e “tendenti verso il male”. Le Berakhot recitate sugli alimenti, come la Shechitah, detengono un importante valore simbolico, anche in quanto non si dimentichi che dietro il cibo che ingeriamo ogni giorno, v’è sempre una preparazione, il lavoro di qualcun altro, o il sacrificio di un essere vivente.
All’opposto, non vi può essere nessuna legittimazione o presa di coscienza. Nessuna distinzione di passaggi, tra l’uccisione di un animale in un mattatoio, fino al successivo arrivo di questo, macellato e diviso in parti, nei supermercati, e poi da lì alle tavole o in qualunque chiosco per strada, per essere consumato distrattamente in piedi o davanti alla TV, o per finire direttamente (come spesso purtroppo accade) nel bidone dell’immondizia.

Francesco Moises Bassano, studente

(14 marzo 2014)