Populismo e banalità
C’è poco di cui stare a discettare, magari esercitandosi sui massimi sistemi per poi dire che se il “popolo” la pensa diversamente dai gruppi dirigenti è bene sostituire il primo a vantaggio della perduranza dei secondi: con le prossime elezioni europee, oramai alle porte, sussiste la netta possibilità che un congruo numero di seggi del Parlamento dell’Unione (l’unica assemblea legislativa ad avere ben tre sedi, Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo, laddove l’ultimo è il sito del suo Segretariato generale) venga attribuito – per meglio dire, conquistato – da formazioni politiche e liste di chiaro impianto populista e sostanzialmente antieuropeo. Alcune proiezioni indicano il bottino potenziale in almeno un terzo degli scranni. Certo, molto dipende da cosa si indichi, e cosa si evochi, con l’espressione populismo, termine inflazionato e non infrequentemente abusato. Del pari, quali soggetti vadano ricondotti a esso e in base a quali criteri discriminanti. Non di meno, la querelle sulla malvagità assoluta o sulla accettabilità di almeno una parte delle parole d’ordine che accompagnano questi movimenti (poiché spesso di partiti è improprio parlare, trattandosi di associazioni politiche di scopo, magari con un obiettivo prevalente, senza l’aspirazione alla stabilità, alla permanenza e alla costanza che connota le formazioni politiche classiche), è tema aperto. Più che accettare o rifiutare in blocco le tematiche, i modi di agire e interagire e i sistemi di mobilitazione dei movimenti populistici, magari collocandoli – erroneamente – tutti nel medesimo paniere e sotto la stessa bandiera, è bene tenere quindi distinti i molti soggetti che si riconoscono in un’ampia e composita matrice politica che fa del disagio sociale, e delle sue potenzialità politica, lo strumento per avanzare richieste di legittimazione per sé e per i propri affiliati. Invocando un rapporto diretto, ossia non mediato (e neanche meditato) tra elettori ed eletti. L’unica cosa certa, infatti, è che la persistenza della crisi economica, la sua cronicità e gli effetti di lungo periodo che sta producendo, a partire da un mutamento di una parte della società, soprattutto con il progressivo sfaldamento del ceto medio e la trasformazione alla radice del rapporto tra lavoro e identità collettive, sono i fattori che più e meglio di molti altri incidono nel rinnovare e potenziare il livello di consenso che queste formazioni riescono a raccogliere. Un esempio indice, ovvero un fondamentale banco di prova, sarà il rendimento elettorale del Fronte nazionale di Marine Le Pen. Da vecchio partito dell’ultradestra radicale, più in sintonia con i temi del fascismo storico che non con l’evoluzione della società francese nella Quinta Repubblica, la figlia dell’ultraottantenne leader dei nemici del gollismo e della sinistra istituzionale, Jean-Marie Le Pen, cavalcando l’onda delle grandi trasformazioni e delle tante paure, sta cercando non solo di aggiudicarsi il voto dei segmenti più deboli della società francese (quelli che un tempo avrebbero optato per la sinistra comunista), cosa che in parte già è avvenuta nelle elezioni legislative e amministrative trascorse, ma anche e soprattutto di svuotare il contenitore della destra liberale, l’Union pour un mouvement populaire di Nicolas Sarkozy, che negli anni trascorsi aveva invece abilmente operato in senso opposto, “saccheggiando” le file del partito lepenista. Pur nella diversità di tipologia, temi e metodi d’azione rispetto ad altre sigle, quest’ultimo, quindi, costituisce un po’ la matrice di riferimento per molte organizzazioni europee. Il Fronte nazionale è contenitore ed elaboratore di argomenti che compongono il tracciato identitario dei populismi europei. Di fatto, mantenendo la ramificazione propria di un’organizzazione partitica tradizionale, cosa che gli garantisce una visibilità mediatica, una presenza sociale, un insediamento territoriale e una continuità operativa che altre liste, in diversi paesi del Continente, non possono invece vantare. Due sono i temi più importanti: da un lato l’appello diretto al popolo, inteso come il depositario di una sovranità assoluta, che non concepisce mediazioni di sorta; dall’altro, l’idea di una comunità etnica, ossia l’esistenza di un carattere nazionale, che si trasfonderebbe poi nella cittadinanza politica, in cui riposerebbero qualità e virtù collegate al rapporto con il territorio d’origine. A questi due elementi se ne associa poi un terzo, ovvero la centralità della leadership, incarnata sempre in una singola persona, il capo. Ma non è quest’ultimo, a ben vedere, il fattore dirimente, soprattutto in un’epoca dove la personalizzazione della direzione politica, carismatica verso l’esterno nonché promessa di protezione per coloro che le conferiscono la qualità di guida indiscutibile, ha sfondato un po’ da tutte le parti. Il popolo avrebbe il diritto inderogabile, secondo la concezione populista, a una rappresentanza immediata, senza vincolo alcuno, in base a un’idea di democrazia diretta che concepisce qualsiasi limite di legge come un impiccio se non, addirittura, come un imbroglio bello e buono, messo lì a bella posta per impedire che l’unica istanza autentica, ossia che abbia pieno diritto a esprimersi, la collettività, intesa come massa indifferenziata, pronunci di volta in volta la sua insindacabile volontà. La legittimazione possibile diventa quindi quella che deriva per acclamazione da parte della piazza, quand’anche essa sia telematica o elettronica. Efficacemente, c’è chi ha definito il populismo come la democrazia senza la Costituzione, ossia il plebiscito quotidiano di tutti su tutto (ammesso e non concesso che ciò possa concretamente avvenire) a prescindere dalle leggi e dalle norme che istituiscono e mantengono un complesso sistema di equilibri, di pesi e contrappesi, altrimenti indispensabili nei sistemi democratici moderni affinché l’arbitrio del più forte non abbia il sopravvento. Al popolo come soggetto unitario, interclassista, inteso omogeneamente in quanto fascio unico di volontà, veraci e autentiche, si contrappongono le corporazioni, i gruppi strutturati di interesse (dai sindacati agli ordini professionali, dalla massoneria ai banchieri), che agirebbero in base a meri calcoli di parte e a inconfessabili motivi partigiani e la cui posizione politica, il cui ruolo economico sarebbero di per sé avversi alla collettività, prescindendo peraltro da qualsiasi analisi di merito sul loro reale operato. Il populismo – infatti – esalta la (falsa) uniformità e l’indifferenziazione della collettività, denunciando la dannosità di quelli che si chiamano corpi intermedi. I quali costituiscono, nella loro ramificazione, le innumerevoli forme di aggregazione sociale delle persone, sorte soprattutto sulla scorta del bisogno di gestire i molti conflitti d’interesse, che attraversano le nostre società, in base alla condivisione di forme di partecipazione al bene pubblico, principalmente attraverso la reciprocità, l’autonomia e lo scambio. Per i populisti si sarebbe in presenza di un delitto contro l’idea stessa di interesse comune. Tutto questo discorso, e ciò che da esso ne deriva, viene poi collegato all’idea che quanto è inteso e appellato ancora una volta come popolo costituisca un’entità non solo omogenea sul piano degli obiettivi e delle risorse ma anche un organismo a sé, fortemente radicato al territorio di appartenenza da tempo immemore. La convinzione che esista una comunità è – in questo caso – non tanto legata allo ius soli (il “diritto del suolo”, ossia l’acquisizione di una cittadinanza come conseguenza del fatto che si sia nati in quel determinato luogo) quanto a una concezione fortemente etnicista del cosiddetto ius sanguinis (il “diritto del sangue”, che sancisce l’appartenenza giuridica a una società nazionale per il fatto di essere discendenti di coloro che già sono in possesso di tale qualità). Le qualità che fanno di un individuo un membro attivo e operoso di un gruppo comunitario deriverebbero non solo e non tanto dalle sue azioni bensì dalla trasmissione di alcuni caratteri, variamente identificati e definiti, che sono propri di una filiazione genealogica. Quanto questa idea sia prossima a resuscitare, magari in forme politiche apparentemente più neutre, vecchie e pericolose categorie, come quella di «razza», è fatto evidente a chiunque non voglia nascondersi dietro ad un dito. Non a caso il populismo risponde ai numerosi problemi generati dai processi immigratori, rispolverando antiche, e mai decadute, convinzioni per cui la cultura di origine di un individuo sarebbe non solo immodificabile ma fonte di conflitti irrisolvibili. Il nesso tra cultura e terra viene peraltro qui visto come inscindibile. Su questo aspetto, come anche su quelli precedenti, molte considerazioni si imporrebbero. Tanto più in un’epoca di globalizzazione, dove invece le divisioni territoriali hanno perso quella natura di distinzione permanente che un tempo rivestivano. Fatto, questo, che se ha agevolato certuni, offrendo loro opportunità e possibilità, ha invece danneggiato molti altri. In un percorso di sofferto riequilibrio, a favore di altre aree del mondo, una parte dei ceti medi europei stanno osservando contrarsi gli spazi di benessere. Il futuro diventa allora fonte di incertezza se non di angoscia. La mancanza di una risposta da parte delle élite, tra di esse quelle europee, se non nei termini di politiche le cui ricadute, frequentemente, costituiscono per le società nazionali costi e non chance, o almeno sono avvertite in tali termini, è un fruttuoso e redditizio viatico per le formazioni populiste. L’illusione che a problemi complessi della vita quotidiana, come gli effetti della divisione internazionale del lavoro (e delle imprese) che è venuta affermandosi in questi ultimi trent’anni, dopo il tramonto in Occidente del sistema di produzione fordista e il radicarsi di un’economia delle conoscenze, si possa rispondere con gesti semplici, con la pura forza della volontà, con il ricorso al plebiscitarismo sono, purtroppo, scorciatoie che attraggono molte persone. Soprattutto se queste ultime sono messe sempre più spesso poste dinanzi alla cruda realtà della loro crescente marginalizzazione, economica, sociale e civile. La banalizzazione è come una sorta di fluido galvanizzante, che dà un respiro temporaneo, una boccata d’ossigeno a chi si sente strozzato dall’azione di qualcosa (e qualcuno) di impalpabile. Ma è una falsa soluzione, destinata a dare corpo a spettri e a fantasmi che, prima o poi, renderanno l’esistenza quotidiana un vero e proprio inferno in terra. Più di quanto non lo sia già adesso.
Claudio Vercelli
(16 marzo 2014)