Purim – I sapori nascosti che svelano la festa
Sullo speciale dossier Pagine Ebbraiche, dedicato a Purim e al witz, il racconto del significato allegorico dietro le ricette della festa, dalle orecchie di Haman ai montini.
Un racconto ripreso anche dal Corriere della Sera.
Il vero significato di un triangolo. Le identità nascoste di qualcosa che appare fuori in un modo, ma dentro cela altro. L’abbondanza, la condivisione. I sapori che caratterizzano la festa di Purim rappresentano molto più che una semplice idea di mangiar bene per onorare la ricorrenza. Nelle tantissime ricette della tradizione, dell’Italia ebraica da nord a sud, del mondo ashkenazita e sefardita, affonda la spiritualità più profonda del 14 di Adar. Uno degli elementi più forti che unisce le ricette di Purim attraverso i secoli e i continenti, è quello del ripieno, come sottolinea Alessandra Rovati, food writer esperta di cucina ebraica e non, che tra l’altro gestisce il blog in lingua inglese Dinnerinvenice.com. “Purim è la festa delle identità nascoste, di ebrei che fingono di non esserlo, di persone che si propongono in modo diverso da quello che sono in realtà. Anche se la realtà poi finisce per essere rivelata”. E così il ripieno che offre un gusto diverso rispetto a quello del cibo in superficie diviene una costante. Non ci sono solo le tipiche Hamantaschen ashkenazite, triangoli di pastafrolla con un cuore di marmellata o semi di papavero. Ripieni sono i travadicos, antichi biscotti al miele e noci di origine greca, i panini riempiti con uova sode in Marocco, le burik dolci tripoline, che il blog Labna.it propone con un cuore di mandorle tritate, zucchero e arancia. Una spiegazione, quella delle identità nascoste, che non può prescindere da Colui che nella Meghillah di Ester (il rotolo che si legge in occasione di Purim) rappresenta chi non si svela per eccellenza: Do stesso, che non viene mai nominato, in un caso unico tra tutti i libri biblici. E alla faccenda del ripieno si può guardare anche da una ulteriore prospettiva: la parola yiddish “tasch” da cui Hamantaschen deriva, non significa “orecchie” come nella traduzione in italiano (o in ebraico, oznei haman), ma “tasca”. E cosa si mette mai in tasca? “Il ripieno ricorda il denaro, il denaro che Haman era disponibile a spendere pur di avere il diritto di uccidere Mordechai” sottolinea il rabbino Elia Richetti. “E infatti non bisognerebbe confondere le Hamantaschen ashkenazite con le orecchie di Haman italiane, che sono fatte con lo stesso impasto dei dolci tipici stagionali che hanno nomi diversi nelle varie città, frappe, chiacchiere, crostoli, galani, ma vengono invece piegate a forma di orecchie, a punta o tondeggianti e pure con il buco in mezzo”. Una ricca pasta all’uovo fritta dunque l’ingrediente fondamentale, a ricordare l’abbondanza, un concetto chiave delle feste antiche: utilizzare olio, grassi, zucchero era fondamentale per celebrare. “Della stessa pasta sono fatti anche i manicotti, altro dolce tipico tripolino” sottolinea Benedetta Guetta di Labna, che queste ricette le ha sempre cucinate in famiglia, proprio di origine libica. E come si fa a non notare quanto questo dolce, ancora una volta fritto e ripieno, non presenti un rotolo così simile a quello di una Meghillah in attesa di essere svolta per la lettura? In fondo un’immagine non troppo diversa da quella delle blinces ashkenazite, simili a crepes, arrotolate, riempite di semi di papavero, zucchero, vaniglia, latte cotti insieme per pochi minuti, e da servire con panna acida, segnalate da Sarah Kaminski, docente di ebraico all’Università di Torino. Di nuovo chilometri di distanza, ma la costante scelta di degustare Purim attraverso rotoli ripieni di suggestioni nascoste. Oltre alla pasta fritta, l’elemento che più attraversa la tradizione culinaria ebraica italiana per Purim è quello delle mandorle o del dolce di mandorle per eccellenza, il marzapane, come si evince sfogliando La cucina nella tradizione ebraica, classico di Giuliana Ascoli Vitali Norsa edito da Giuntina (che propone tra gli altri i Montini, ricetta tipica triestina e diffusa in tutto il Triveneto). D’altronde, quando si parla di tradizioni ebraiche, molto spesso ciò che si porta in tavola rappresenta l’identità stessa. Si vede bene in Israele, come racconta Daniela Fubini, acuta osservatrice di quanto accade per le strade di Tel Aviv nel suo blog Oltremare. “I sapori sono un elemento talmente centrale nella vita dei diversi gruppi che il concetto viene dato completamente per scontato. Soprattutto in alcuni casi. Per esempio, a Tel Aviv abbiamo il fenomeno per cui le varie ondate migratorie che si sono succedute nel corso dei decenni sono spesso andate a stanziarsi ciascuna in una diversa area della città. A distanza di anni, quei quartieri sono ancora il luogo in cui andare a sperimentarne la cucina: per esempio per mangiare georgiano, tutti sanno che il posto in cui andare è Or Yehuda. Poi, anche le seconde e le terze generazioni, pur israeliane al 100 per cento, mantengono un legame fortissimo con i piatti di madri e nonne, provenienti dalle terre d’origine. Una realtà che emerge nettamente anche nei programmi di cucina che qui sono molto popolari”. Nello Stato ebraico inoltre, l’arrivo di Purim dà particolarmente nell’occhio, assicura ancora Fubini “perché quando spariscono da negozi e supermercati i bomboloni di Chanukkah, appaiono le orecchie di Haman”. Ma a Purim, mangiare significa anche condivisione. Infatti due delle quattro mitzvot (comandamenti) principali della festa ruotano intorno alla dimensione del cibo: oltre che ascoltare la lettura pubblica della Meghillah alla sera e alla mattina e fare dono ai poveri, a Purim sono prescritti infatti la consumazione di un pasto festivo (seudat Purim) e il mishloach manot (letteralmente “invio di porzioni”): regalare ad amici e parenti un insieme di cibi che comprendano alimenti di diversa natura tali per cui è necessario recitare almeno due berakhot (benedizioni). Ed è proprio rispetto al pasto festivo che il Talmud, nel Trattato di Meghillah, dà un’altra indicazione per cui la ricorrenza del 14 di Adar è famosa: quella di bere fino a non riuscire più a distinguere tra arur Haman (“maledetto sia Haman”) e baruch Mordechai (“benedetto sia Mordechai”). Ma è davvero così? Precisa rav Richetti: “Il grande commentatore Rashì spiega che la corretta interpretazione prevede di bere non tanto da non distinguere più, ma appunto ‘fino a’ non distinguere più. Cioè di fermarsi un attimo prima che ciò avvenga”.
Rossella Tercatin twitter @rtercatinmoked
Tasche, cappelli, orecchie: il mistero dei biscotti
Tasche, cappelli, orecchie. Ovvero la vita segreta dietro al più popolare tra i dolci di Purim, le Hamantaschen. Cominciamo a sgombrare il campo da alcuni degli errori più comuni, quelli da principianti. Hamantaschen (yiddish, per chi non lo avesse riconosciuto) non significa “orecchie di Haman”, come usiamo dire in Italia, e come, a onor del vero, gli amati biscotti triangolari ripieni di marmellata vengono chiamati anche in ebraico, oznei Haman. Significa tasche, le tasche di Haman, ripiene dei soldi che il corrotto funzionario del re Achashverosh intascava per i suoi affari, secondo una interpretazione, oppure il denaro che era disposto a spendere pur di far uccidere Mordechai. E un altro piccolo particolare. Quando si cerca un significato, di solito ci si concentra sulla seconda parte del termine (“taschen”). Che siano tasche, orecchie o il cappello a tre punte del perfido discendente di Amalek (anche se c’è chi si chiede, ma i tricorni non arrivarono solo un paio di millenni più avanti?), nessuno mette in dubbio che il protagonista della faccenda sia Haman, giusto? Sbagliato! Infatti c’è un altro ingrediente che oltre alla marmellata finisce spesso al centro della pastafrolla, i semi di papavero, che in yiddish si chiamano mon (mohn in tedesco). Che in effetti con Haman ha una certa assonanza: sarà forse per questo che a Purim nel mondo ashkenazita sono tipici anche i biscotti e la torta ai semi di papavero. A questo punto però è utile concentrarsi sulla questione delle orecchie, che affonda nei secoli di storie e peregrinazioni degli ebrei in Europa. Infatti se qualcuno pensa che gli italiani si limitino semplicemente a storpiare la traduzione dall’yiddish è fuori strada. Perché le Orecchie di Haman esistono eccome e sono proprio un dolce diverso rispetto alle Hamantaschen. Si tratta di una ricca pasta all’uovo fritta nell’olio, insaporita con scorza di limone, oppure liquore, o semplicemente spolverata di zucchero, che poi viene piegata a forma triangolare (foto e ricetta in alto a destra). L’impasto è analogo a quello che viene usato per quei tipici dolci stagionali che sono le frappe, chiacchiere, crostoli, galani. Chi ci sarà arrivato prima? “Dato che analoghe ricette sono diffuse anche presso gli ebrei di tanti altri paesi, marocchini, tunisini, turchi, probabilmente ci siamo arrivati prima noi” sorride rav Elia Richetti, mentre passa in rassegna tutte le dolcezze di Purim. E in effetti, in questi intrecci tra etimologie e sapori, gli esperti sottolineano che probabilmente questi alimenti furono diffuie dagli ebrei cacciati dalla Spagna nel 1492. Un riferimento specifico alle orecchie di Haman si può trovare anche nel Midrash (storia rabbinica) che, per descriverlo dopo la sua caduta, usa un’espressione equivalente al concetto di “tirata d’orecchie”. Che fosse stato abbastanza cattivo da meritarsela, non ci sono dubbi.
Pagine Ebraiche, marzo 2014
(16 marzo 2014)