A 70 anni dalle Fosse Ardeatine
Anche il presidente del Senato Pietro Grasso al convegno “1944-2014: le Fosse Ardeatine 70 anni dopo” organizzato in Sala Zuccari su impulso dell’associazione culturale Arte in Memoria e dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla resistenza. L’incontro, in programma domani alle 10 con patrocinio del Senato, vedrà numerosi ospiti e relatori a confronto su una delle più significative azioni criminali compiute dai nazisti in Italia alla vigilia, lunedì prossimo, del 70esimo anniversario dell’eccidio. Presieduto dalla senatrice Silvana Amati, il convegno vedrà gli interventi del sindaco di Roma Ignazio Marino, del presidente della Comunità ebraica Riccardo Pacifici, del presidente dell’Associazione familiari delle vittime delle Fosse Ardeatine Rosetta Stame, del presidente dell’Anpi Carlo Smuraglia, del ministro della Difesa Roberta Pinotti e del ministro per i Beni Culturali Dario Franceschini. Introdotti da Annabella Gioia (Irfasir) interverranno poi Gabriele Ranzato (Università di Pisa – La strage delle Fosse Ardeatine nel contesto della Seconda guerra mondiale), Adachiara Zevi (Architetto – Arte in memoria – Il Mausoleo delle Fosse Ardeatine: punto e a capo) Antonino Intelisano, Cassazione – Le Fosse Ardeatine nel prisma della giurisprudenza) la testimone Giulia Spizzichino, Alessandro Portelli (Università di Roma La Sapienza – Le Fosse Ardeatine e il lavoro della memoria), Lutz Klinkhammer (Istituto Storico Germanico – La memoria pubblica delle Fosse Ardeatine) e Valentina Pisanty (Università di Bergamo – Il testamento di Priebke e il negazionismo). Sono previste alcune letture a cura di Giulio Scarpati.
In concomitanza con l’anniversario esce inoltre nelle librerie il nuovo studio di Adachiara Zevi dal titolo “Monumenti per difetto. Dalle Fosse ardeatine alle pietre d’inciampo” che (Donzelli editore) vuole in primo luogo riportare l’attenzione sul mausoleo che ricorda l’uccisione di centinaia di civili innocenti. Ma il libro, di cui Pagine Ebraiche di aprile in distribuzione anticipa la prefazione, costituisce anche un’occasione straordinaria per comprendere e valutare nel suo insieme il contributo che arte e architettura hanno offerto alla tutela della Memoria.
(17 marzo 2014)
Le nostre ferite e i monumenti per difetto
Una breve storia attraverso i monumenti «per difetto», annuncia il titolo. Difetto di cosa? Di «monumentalità», se per essa si intendono alcune prerogative generalmente attribuite ai monumenti: unicità, staticità, ieraticità, persistenza, ipertrofia dimensionale, simmetria, centralità, retorica, indifferenza al luogo, aulicità dei materiali, eloquenza, esproprio delle emozioni. Una storia parziale, non esaustiva, non una ricognizione che annoveri e classifichi monumenti e memoriali a seconda dei luoghi, dei soggetti, dei destinatari: a partire dagli anni novanta, le ricerche pionieristiche dello storico americano James Young hanno trovato infatti seguito in una galassia di pubblicazioni di esauriente valore documentario e scientifico.
Una storia non obiettiva ma settaria, che non considera alla stessa stregua le possibili declinazioni artistiche e architettoniche. Privilegia infatti la sobrietà sulla ridondanza, l’afasia sull’eloquenza, la sottrazione sull’enfasi, la modernità sul passatismo anacronistico, la responsabilità individuale sulla delega: per dirla con Todorov, la «forma esemplare» su quella «letterale».
Pubblicato in occasione del 70° anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine avvenuto il 24 marzo 1944, questo studio vuole in primo luogo riportare l’attenzione sul mausoleo che lo ricorda, i cui meriti sono spesso ignorati o sottovalutati dagli stessi romani. Eretto in memoria di una strage efferata, simbolo della resistenza all’oppressione nazifascista, esito del primo concorso dell’Italia democratica bandito nel 1945, il mausoleo scrive una nuova pagina nella lunga storia di monumenti e memoriali. Propone per la prima volta non un oggetto da contemplare ma un percorso da agire, per rivivere fisicamente ed emotivamente il tragitto seguito dalle vittime: le emergenze, naturali come le cave, architettoniche come il sacrario e artistiche co- me le cancellate sofferte di Mirko, non sono stazioni di arrivo, ma tappe di un circuito continuo. A questa pietra miliare che segna, nella coralità dei linguaggi messi in campo – figurativo, astratto, informale, espressionista – la ripresa del dibattito artistico e architettonico interrotto da vent’anni di oscurantismo fascista, seguono altri tre casi esemplari di monumenti «per difetto».
Denkmal für die ermordeten Juden Europas, il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, progettato da Peter Eisenman nel cuore di Berlino, registra il passaggio decisivo dal monumento come percorso al monumento come brano di città. 2711 pilastri a quote diverse e con diversa inclinazione costruiscono una gigantesca griglia deformata e sbilenca. Se l’itinerario romano è, pur con significativi margini di manovra, sostanzialmente univoco e finalizzato a connettere gli episodi monumentali delle cancellate, delle cave, del sacrario e della statua di Francesco Coccia, a Berlino si è liberi di scegliere fra i 54 assi in direzione nord-sud e gli 87 in quella est-ovest. Solo con se stesso, privo di indicazioni, di direttrici privilegiate, di fulcri prospettici, il visitatore vive un’esperienza che prevede logica e ordinata ma che, nel compierla, si rivela instabile e destabilizzante. Ancora, se a Roma il mausoleo è recintato e concluso, il memoriale di Berlino è sempre aperto, come il resto della città; ci si imbatte in esso senza saperlo, passeggiando per il centro e il Tiergarten. A differenza di Roma, infine, Eisenman compie una scelta linguistica univoca: la griglia, astratta, indifferenziata, iterabile all’infinito. Nell’opzione per un modulo e non per una forma, per l’iterazione temporale anziché per la composizione spaziale, risiede l’unicità del memoriale di Berlino rispetto ad altri esiti astratti. Afasico, non mostra cosa ricordare, suggerisce solo percorsi di memoria solitari e silenti. Spetta però al «contro-monumento», la cui sparizione è prevista dalla sua stessa concezione, la sfida più radicale. Se il «cuore assoluto di questo secolo moderno» è l’invisibile, la «distruzione senza rovina», medita Gerard Wajcman, il «contro-monumento», nel rendere visibile l’assenza, ne è la rappresentazione letterale. Non sorprende che l’idea origini in Germania, chiamata a commemorare le vittime di crimini da lei stessa commessi. Di qui l’oscillazione tra memoria e oblio, tra monumento e sua rimozione.
Mahnmal gegen Faschismus, Krieg, Gewalt für Frieden und Menschenrechte (Monumento contro il fascismo, la guerra, la violenza – per la pace e i diritti umani) di Jochen Gerz ed Esther Shalev Gerz, inaugurato ad Amburgo nel 1986, è il paradigma dei «contro monumenti». Grazie alle firme o iscrizioni dei cittadini sulla duttile superficie, una colonna di piombo si inabissa progressivamente sino a scomparire nel giro di sette anni, trasformando gli spettatori del mo numento alla memoria in memoria del monumento. Confiscata al monumento, la memoria è quella viva dello spettatore che, attraverso la sua firma/testimonianza, diventa complice dell’artista nella realizzazione/sparizione dell’opera.
Una soluzione troppo radicale per costituire un approdo. È compito allora degli Stolpersteine, le «pietre d’inciampo» ideate dall’artista tedesco Gunter Demnig, indicare il metodo che consente al «contro-monumento» di proliferare e diffondersi, di divenire appunto un «monumento diffuso» a scala europea: la contravvenzione più clamorosa del monumento unico, centrale e centripeto. Tutte, indistintamente tutte, le vittime del nazifascismo tra il 1933 e il 1945 sono ricordate da un piccolo segno, un semplice sampietrino che, nominandole e raccontandone in modo essenziale, discreto e succinto il tragico destino, assolve a due funzioni fondamentali: restituire loro dignità di persone e offrire ai famigliari e ai cittadini un luogo dove ricordare quanti sono stati «distrutti senza rovina», ridotti prima a numeri, finiti poi in cenere o in fosse comuni. Non un luogo qualunque, però, non un luogo aulico deputato alla memoria, ma la loro abitazione, da dove sono stati strappati, la soglia tra una vita normale fra gli affetti e il baratro. Gli Stolpersteine personalizzano la storia, traducono una cifra astratta, incommensurabile, in milioni di storie individuali. Discreti, invisibili senza «inciampo» perché interrati, sono radicati però nel tessuto urbano, parte di una mappa europea della memoria in progress il cui completamento è oltre l’umana possibilità di previsione. Tutti diversi ma tutti uguali, visualizzano la condivisione di un destino comune ma anche quanta diversità quel destino abbia conculcato. Sono antigerarchici: ti colgono di sorpresa, attraendoti con il loro bagliore, ovunque ti trovi, nel centro storico, in un quartiere residenziale, in un quartiere popolare, in una borgata. Gli oppositori al nazifascismo erano ovunque e così le pietre che li ricordano. Non esigono contemplazione ma una fruizione dinamica e temporalizzata. Non occorre convergere al centro per vederle; sono loro a raggiungerti; ogni quartiere ha il «suo» monumento ai «suoi» caduti, ma di forma, dimensi ne e valore uguale agli altri. Prezioso contributo alla ricerca storica scritta e orale, potente antidoto al revisionismo e al negazionismo, sono la dimostrazione più eloquente che, quanto più il ricordo è affidato a un segno sobrio e silente, tanto più il processo di elaborazione individuale rinuncia alla delega per attivarsi in prima persona. Due musei a confronto, infine: il National Holocaust Memorial Museum di Washington e il Jüdisches Museum di Berlino: dedicato il primo alla storia della Shoah, il secondo a quella degli ebrei tedeschi. Se James Ingo Freed «costruisce un campo di concentramento nel Mall», traducendo letteralmente, negli spazi, nei percorsi e nei materiali, una storia tragica raccontata nel museo con enfasi documentaria, l’organismo di Daniel Libeskind ospita la storia ma attiva anche la memoria: incorpora e fa rivivere quel dramma con un’architettura nevrotica, angosciata e claustrofobica. A queste due centralità fa da contrappunto il Museo diffuso della Resistenza, della deportazione, della guerra, dei diritti e della libertà, di Torino e Provincia: una rete di luoghi della memoria dislocati sul territorio, coordinata dal «centro d’interpretazione» ospitato nei Quartieri Militari di San Celso.
Intorno a questi capostipiti ruota la famiglia numerosa e prolifica di proseliti raccontata nelle prossime pagine. Ogni anno, il 24 marzo, manifestazioni e commemorazioni ufficiali sfilano nel piazzale del Mausoleo delle Fosse Ardeatine: di fronte al sacrario, dove si allineano i sepolcri tutti uguali, i 335 nomi dei caduti sono scanditi ad alta voce. Dal 2012, grazie alle «pietre d’inciampo», alcuni di loro sono tornati nelle loro case, nei quartieri, nelle parrocchie, davanti alle scuole dove hanno svolto l’apostolato di maestri. Tra il mausoleo e quelle pietre corrono 70 anni: il lasso di tempo scelto per questo breve e lacunoso percorso tra i «monumenti per difetto». Distanti nel tempo e nello spazio quanto le poetiche che li inverano, additano che l’arte e l’architettura sono strumenti preziosi per una elaborazione creativa, originale, irriverente della storia e della memoria, un antidoto alla passività e all’assuefazione.
Adachiara Zevi