Cesare Segre (1928 – 2014)
Un uomo dalla straordinaria genialità. Risoluto nelle convinzioni ma mai arrogante o prevaricatore. Premuroso con gli amici e attento a intervenire con delicatezza nei rapporti umani. Per molti difficilmente avvicinabile, grazie a quel manto di autorevolezza che in pochi oggi possono vantare. L’Italia saluta il grande filologo e critico letterario Cesare Segre, scomparso ieri all’età di 86 anni a Milano, e ne celebra il suo significativo contributo al panorama letterario e intellettuale del nostro paese. Chi lo ha conosciuto, come Ernesto Ferrero, direttore del Salone del libro di Torino, ne ricorda la gentilezza nei modi, la sensibilità e delicatezza del suo modo di mostrarsi un amico. Chi ne fu allievo, come Alessandro Vitale Brovarone, docente di Filologia e Linguistica romanza all’Università di Torino, ricorda di come tutti avessero paura del suo giudizio sottile e profondo ma mai maligno. “Non era mai un atteggiamento da ‘adesso ti insegno io la vita’. Preferiva provocare le idee”, sottolinea Brovarone. “Uno studioso per cui provavo molta ammirazione che dava l’impressione di essere un uomo molto distaccato, con cui era difficile entrare in contatto”, afferma lo storico Alberto Cavaglion che ricorda il fondamentale contributo di Segre al mondo letterario grazie alla creazione, insieme a Maria Corti, del Centro manoscritti di Pavia (istituzione dedicata proprio alla Corti).
Iscritto alla Comunità ebraica di Milano, Segre però nasce e cresce nell’ambiente ebraico piemontese. Precisamente a Verzuolo, tra quelle valli del cuneese che ospitarono nella Seconda Guerra Mondiale la Resistenza partigiana al nazifascismo. E a uno dei più celebri testimoni di quegli avvenimenti, il torinese Primo Levi, Segre si legherà in età più avanzata. “So che tra loro ci fu un intenso carteggio”, conferma il figlio dell’autore di Se questo è un uomo, il professor Renzo Levi. Quando Segre, che fu professore emerito di Filologia romanza all’Università di Pavia, si avvicinerà ai testi di Levi, lo farà con una prospettiva non solo professionale. “ Anche se lui aveva un’età diversa dalla mia e le sue esperienze erano state diverse dalle mie, la sostanza è comune – dirà Segre in un’intervista – Anch’io appartengo a una famiglia perseguitata, anch’io non ho quasi legami con la mia religione, se non di carattere sentimentale, perché mi fa pensare a mio nonno e a certi suoi comportamenti. Anch’io ho patito il trauma di essere considerato diverso, quando le leggi razziali mi hanno impedito di entrare alla scuola media. Per questo mi sono sentito molto rappresentato da Levi”. Non entra a scuola ma per il giovane Segre gli studi non si interrompono. Anzi nel lungo periodo in cui fu costretto a rimanere nascosto in un istituto salesiano della Val di Susa, getta le basi per diventare uno dei più proficui e autorevoli letterati dell’Italia moderna.
Come racconta sul Corriere della Sera Paolo Di Stefano, sarà lo zio Santorre Debenedetti, grande filologo del Novecento, a propiziarne la formazione, suggellata dalla collaborazione di un Segre ormai universitario con lo storico della lingua Benvenuto Terracini, con cui si laureerà, e con un un altro grande uomo del mondo intellettuale italiano, Bruno Contini. Grandi maestri come lui stesso diventerà nell’arco della sua carriera. “Aveva una profondità e sottigliezza di pensiero fuori dal comune. E rara era la sua capacità di pubblicare così come di interpretare testi. In genere in questo mondo, ci si divide in chi sa fare l’una o altra cosa, difficile trovare chi sa fare bene entrambe”, afferma il professor Brovarone. “Sono onorato di aver potuto avere in piccola parte la sua amicizia. Un uomo a cui facevo molta fatica a dare del tu”. L’aura di persona solitaria e distaccata, contrasta con le parole di chi con Segre ha avuto un rapporto più intimo. “Era sempre attentissimo ai suoi amici – confida Ernesto Ferrero – se ad esempio si pubblicava qualcosa di nuovo, Cesare non faceva mancare i suoi biglietti con cui, con delicatezza ma estrema profondità, entrava dentro al libro”. Ferrero ricorda come da Einaudi, presso cui il direttore del Salone del Libro iniziò a lavorare nel 1963, Cesare Segre fosse di casa. “Partecipava alle famose riunioni del mercoledì e il suo parere era tenuto sempre in grande considerazione. Era un punto di riferimento per noi”. Tanto, sottolinea Ferrero, che alla morte di Giulio Einaudi si pensò proprio al filologo per la presidenza del consiglio di amministrazione della casa editrice torinese.
Di una risolutezza adamantina, nel ricordo dell’allievo e amico Brovarone, i suoi studi toccheranno diversi settori della letteratura, dimostrando la sua sensibilità alle novità di metodo verso cui “non aveva mai un approccio dogmatico. Inoltre non era geloso dei suoi scritti e accettava le critiche o comunque le approcciava in modo molto tranquillo”. Quello che non accettava ero lo scadimento moderno della lingua italiana, per cui sulle pagine del Corriere, con cui intrattenne una longeva collaborazione, scriverà con sofferta ironia il suo giudizio negativo sullo stato di salute dell’italiano. Sotto accusa, ad esempio, il turpiloquio. “Forse si teme che questa disapprovazione sia considerata bacchettoneria; si dovrebbe invece formulare una condanna esclusivamente estetica. Anche qui, molti giovani si mettono alla testa del peggioramento. Pensiamo all’uso di punteggiare qualunque discorso con invocazioni al fallo maschile, naturalmente nel registro più basso, che inizia con la c. Un marziano giunto tra noi penserebbe che il fallo sia la nostra divinità, tanto ripetutamente viene nominato dai parlanti. Insomma, una vera fallolatria”. “Un popolo è la lingua che parla – riflette Ferrero – e Cesare non poteva che rimanere amareggiato di fronte allo scadimento contemporaneo”. Il suo giudizio severo, di cui avere paura, ma al contempo scevro da malizie e malignità mancherà a chi, come lo stesso Segre, ha a cuore la lingua italiana, perché dell’Italia ha a cuore le sorti, non solo linguistiche.
Daniel Reichel @dreichelmoked
(17 marzo 2014)