Sefarad

Francesco Moisés BassanoDa quello che leggiamo su autorevoli media ebraici sarebbero numerosi gli ebrei che hanno accolto con entusiasmo e interesse la legge del governo Rajoy che concederebbe la cittadinanza spagnola ai discendenti sefarditi espulsi dalla Spagna nel XV Secolo. Così che dopo Israele – e il piano sfumato dell’URSS stalinista di trasferire gli ebrei nella regione di Birobidzhan – la Spagna diverrebbe il secondo Stato moderno disposto ad accogliere ed agevolare la formazione di una presenza ebraica. Siano tardive lacrime di coccodrillo, tentativi di fermare il fatidico Herem, o una manovra economica in periodo di crisi, resterà forse un mistero. Come rimane in parte ignoto il perché la Penisola Iberica, dopo Eretz Israel, abbia rivestito nell’immaginario ebraico nei secoli, prima e soprattutto dopo il 1492, un sì forte valore simbolico, senza che mai il suo vivido ricordo svanisse nella memoria dei suoi discendenti. Lituania, Polonia o Algeria, nessuno di questi ed altri luoghi dove la popolazione ebraica era comunque dinamica e consistente, ha mantenuto un legame tanto intenso come quello degli ebrei sefarditi – il 15% circa della popolazione ebraica mondiale – con la Spagna e il Portogallo. Sarà forse per l’alto livello di integrazione, prosperità e produzione/speculazione intellettuale raggiunto dagli ebrei in Al-Andalus o alla corte di Alfonso El Sabio: Edad de Oro mai del tutto ricomparsa, portando poi successivamente la penisola a un lento ed inesorabile declino protratto fino ai giorni nostri. O sarà l’ingiusta e quasi inaspettata espulsione, o una sorta di Saudade, o semplicemente l’immagine esotica che Sefarad potrebbe suscitare in un cittadino di Amsterdam o di Londra del XVI come del XXI Secolo.
Qualunque siano le ragioni, già dopo l’espulsione, una discendenza o un cognome iberico (se non iberizzato) era un segno di prestigio, da Nieuw Amsterdam allo Schleswig-Holstein, dalle Indie Occidentali alla Costa di Malabar in India, conversos ed esuli iberici formarono nuovi Qehalim, si imposero con testi e minhagim, lingua, rabbini e nuovi consigli sulle più anziane comunità autoctone del Mediterraneo o del Maghreb. Tanto che oggi paradossalmente anche un ebreo di Bukhara, o di origine libica o siriana, diviene automaticamente sefardita o preferisce definirsi tale, poco importa se abbia o meno qualche antenato vissuto realmente in Spagna.
Secondo leggenda, direttamente dalla Spagna sarebbe provenuta interamente la Sinagoga Abuhav di Safed o il magnifico Hekhal in legno intagliato del primo tempio di Livorno custodito tutt’ora nel Museo Yeshivà Marini, e di storie analoghe se ne contano a centinaia, come quella che gli ebrei di Istanbul sarebbero ancora in possesso delle chiavi delle loro ex abitazioni in cui furono espulsi. La lingua portoghese sopravvisse a lungo come lingua ufficiale di alcune comunità quasi fino al XIX, così come il castigliano, specie in forma letteraria e nostalgica nella poesia e nelle accademie, evoluto a sua volta nel Djudezmo attuale dei Balcani, nell’Haketia o confluito nel gergo Bagitto livornese. Vero che l’yiddish ha avuto più fortuna di qualsivoglia lingua ebraica o giudaico-iberica, ma oltre ad aver favorito il dato demografico più cospicuo, questo è divenuto nel tempo, specie per le comunità hassidiche, una lingua neutra in opposizione al Leshon HaKodesh, rompendo una connessione con il proprio luogo d’origine in area renana, anche per la sua precoce espansione verso l’Est Europa.
Rispetto al più solido e determinante tessuto ashkenazita, senza una koiné collettivamente condivisa, con la devastazione nazista delle popolose comunità balcaniche e greco-ottomane, l’assimilazione diffusa, o l’eventuale allineamento e assorbimento ad una cultura ebraica più standardizzata, la Naçao iberica in esilio ha finito per disperdersi ed indebolirsi. Pur senza cancellare il fiero retaggio “la Herencia”, e recidere quel profondo vincolo con la Penisola Iberica. Qui non rimane molto di Sefardì, ma dalla seconda metà del XIX l’emergere di una più solida identità nazionale riesumò la storia ebraica di Spagna, aprendo così timidamente le porte anche agli ebrei del vicino Marocco, da cui poi seguirono, con la “neutralità” franchista durante la II Guerra Mondiale, sparute migrazioni ebraiche che dai Pirenei fuggivano dalle persecuzioni nazi-fasciste, le quali da allora non sono mai del tutto cessate. Vi sarebbero così attualmente circa 30-40mila ebrei in Spagna e circa 8mila in Portogallo, tra cui molti Ashkenazim e qualche “ritrovato” Criptojudío, concentrati soprattutto nei capoluoghi, come Madrid e Barcellona, e nei grandi centri balneari della Costa Blanca e Costa del Sol.
La Spagna di oggi dunque, divisa internamente tra un revisionismo filosefardita e un mai spento antigiudaismo di origine cristiana, parrebbe probabilmente irriconoscibile agli occhi di un Avicebron o di un Rambam, i quali si aggirerebbero perplessi in mezzo ad agglomerati sorti o ‘ingrassati’ nell’arido deserto della Meseta, o in viali caratterizzati da squallidi condomini e cantieri fermi, e in cerca dei loro silenziosi patios finirebbero nelle aljamas ‘imbellettate’ di Sevilla o Cordoba, diventate più un percorso turistico su arie alla “Mille e una Notte” che qualcosa che si avvicini più propriamente alla ricerca e alla verità storica. Eppure la Spagna, non smette di suscitare un indescrivibile fascino e una sensazione familiare, anche per me, che da li(v)ornez non posso non rivendicare antenati iberici, e non posso dimenticare i racconti del Manoscritto trovato a Saragozza di Potocki o il mito del Don Chisciotte di Cervantes (che qualcuno ritiene di origine marrana). Per non parlare del Portogallo, dove al contrario pare che le lancette si siano realmente fermato a un età indefinita, e dove le molte case in abbandono di Porto e di Lisbona, sembrano realmente attendere il ritorno di qualche cristão-novo che torni a riaprire con le proprie chiavi serrature ostruite dalla polvere e dal tempo.

Francesco Moises Bassano

(21 marzo 2014)