Identità: Shalom Y. Halevi
Nel 1958 l’allora Primo ministro dello Stato di Israele, David Ben Gurion si è trovato a gestire il fatto che la nozione stessa di identità ebraica era diventata in Israele oggetto di una legislazione che avrebbe avuto implicazioni pratiche cruciali. A cinquanta “Saggi di Israele” Ben Gurion pose la domanda divenuta il titolo del lavoro del professor Eliezer Ben Rafael, che in un e-book intitolato “Cosa significa essere ebreo?” – scaricabile dai siti www.proedieditore.it e www.hansjonas.it – ha messo in luce per la prima volta in Italia quella discussione sistematica sull’identità ebraica. Ogni domenica, sul nostro notiziario quotidiano e sul portale www.moked.it, troverete le loro risposte. Oggi la risposta di rav Shalom Yitzhak Halevi (1891-1973). Nato nello Yemen, si stabilisce in Palestina dove dal 1925 al 1961 è Rabbino Capo degli ebrei yemeniti di Israele. È stato giudice del Tribunale rabbinico di Tel Aviv e membro del Consiglio del Gran Rabbinato. Ha pubblicato numerosi lavori nel campo della Halakhah e ha curato la pubblicazione di manoscitti di studiosi yemeniti.
Tel Aviv, 28 shevat 5719 (6 dicembre 1959)
Signor Primo ministro,
Spero stia bene.
Con la presente accuso ricevuta della Sua lettera del 13 cheshvan (27 ottobre) (recapitatami
in ritardo) relativa all’iscrizione di figli minorenni di matrimoni misti e
ho l’onore di risponderle.
È degno di nota [il fatto che] il governo si rivolga ai rabbini per conoscere la loro
opinione ed [esprimo] la speranza e la preghiera che non solo ascolti la loro opinione
ma accetti anche il loro consiglio che è quello della nostra santa Torah. Sarebbe
stato meglio se si fosse accontentato della risposta del Gran Rabbinato di Israele
che è l’autorità suprema in questo ambito, in Israele e nella diaspora.
Voglio spiegare cosa penso del problema sollevato e della sua fondamentale importanza
per l’esistenza del popolo ebraico; il destino dell’intera nazione, e dello
Stato in particolare, dipende dalla sua soluzione.
Il problema capitale che a noi si pone è sapere se l’ebraismo permette di separare
la religione dalla nazione, come gli altri popoli possono invece fare.
Sappiamo che la religione di Israele è esistita prima del popolo di Israele. Il nostro
patriarca Abramo, il padre della nazione, è stato il primo a portare al mondo [il
principio] fondamentale del monoteismo che ha trasmesso ai propri figli.
Le tribù di Israele hanno ricevuto la Torah sul [monte] Sinai prima di conquistare il
paese e diventare un popolo particolare, diverso dagli altri nella sua essenza e nel suo
modo di concepire la vita, secondo il versetto: “Voi sarete per me la proprietà tra tutti
i popoli” (Esodo 19,5). È scritto anche: “Ecco un popolo che dimora solo e tra le
nazioni non si annovera” (Numeri 23,9). Questo è il patrimonio [ereditato] dai suoi
avi Abramo, Isacco e Giacobbe. Ma quando hanno tradito Dio e violato l’alleanza
dei patriarchi, e nonostante avessero preservato la nazione, hanno [dovuto] lasciare
il paese e sono stati dispersi ai quattro angoli dell’universo. È una cosa nota che non
possiamo negare ed è impossibile dire che fosse un caso. Ne fa fede la proclamazione
dei nostri profeti, dal nostro maestro Mosè fino all’ultimo di loro, Malachia, che conclude
con queste parole: “Tenete a mente la legge del mio servo Mosè…”.100
Il popolo di Israele si è pentito delle proprie cattive azioni ed è rimasto fedele alla
propria tradizione durante l’esilio; ovunque ha subito il martirio, santificando il
nome divino, e non ha mai più trasgredito l’alleanza dei patriarchi. Noi stessi, a
maggior ragione, al ritorno nella nostra patria, mentre ricostruiamo la nostra indipendenza,
dobbiamo compiere questa impresa sulla base della tradizione ebraica,
perché la nostra santa Torah è la Torah della Terra [di Israele]. Citerò qui un esempio,
quello del Sanherib che ha deportato i popoli da un paese all’altro e ha portato
in Terra di Israele le genti di Kut. Queste sono state sterminate dai leoni perché
non hanno osservato la legge del Dio di questo paese e hanno trasgredito i dieci
comandamenti. Per questa ragione, il re di Assiria ha ordinato di riportare uno dei
sacerdoti perché “insegni [loro ] la religione del Dio del paese” (II Re 17,25-28).
La religione di Israele ha preservato il popolo di Israele durante secoli di vicissitudini
ed erranza tra le nazioni del mondo intero; per questo popolo essa funge non
solo da Weltanschauung e da modo di vivere ma anche da strumento affascinante che
unisce le diverse parti del popolo ebraico. Nello Stato di Israele si sono perciò rincontrati
ebrei che erano stati separati durante i secoli di esilio, dove ogni diaspora
aveva adottato il proprio modo di vivere e pertanto, quando si sono ritrovati, non
si sono sentiti estranei l’un l’altro. La ragione è semplice: la religione è stata lo strumento
della riunione, non solo per gli ortodossi che seguono le vie della Torah, ma
anche per quelli che non seguono i comandamenti. Perché, a differenza dalle altre,
nella religione di Israele sono indissolubilmente legati tre elementi: l’amore di Dio
e dei suoi precetti, l’amore [del popolo] di Israele, e l’amore della Terra di Israele,
come hanno già detto i nostri Saggi: “Dio, la Torah e il popolo formano un’unità”.
Gli ebrei yemeniti forniscono un esempio concreto del fatto che religione e nazione
sono indissolubilmente legate. Il loro cupo esilio, le persecuzioni cui sono stati
sottoposti per il loro ebraismo e, dall’altra parte, i tentativi di seduzione per assimilarli
[al contesto musulmano] non hanno avuto successo. Giorno e notte sogna-
vano Sion e sognavano di farvi ritorno; nello Yemen non ci sono stati movimenti
nazionali101 o altri che potessero influenzarli. La loro fede sincera e messianica li
ha preservati fino a quando è giunto il tempo della loro redenzione e hanno avuto
il privilegio di “salire” 102 [con tutta la loro comunità] verso la terra di cui avevano
nostalgia. Tutti i tentativi che finora sono stati fatti per separare la religione dalla
nazione hanno portato soltanto a risultati nocivi. Basta ricordare i Cananei e i loro
simili, che rinnegano la nazione e la [sua fede] e sono la conseguenza inevitabile
del libero pensiero e della separazione dalla religione e dalla nazione. Per non dilungarmi
su questo tema, tratterò [adesso] il problema in questione – i matrimoni
misti e i figli che ne sono nati.
Mi sembra che non siamo stati i primi ad aver dovuto affrontare il problema. Già
Esdra e Neemia avevano rivolto al popolo un terribile appello (Esdra 10, 9-11):
“Allora tutti gli uomini di Giuda e di Beniamino si radunarono a Gerusalemme
entro tre giorni… Esdra… disse loro: “Voi avete commesso un atto di infedeltà,
sposando donne straniere: così avete accresciuto la colpevolezza di Israele. Ma ora
rendete lode al Signore, Dio dei vostri padri, e fate la sua volontà, separandovi dalle
popolazioni del paese e dalle donne straniere” ”. E più avanti (Neemia 9,2): “Quelli
che appartenevano alla stirpe d’Israele si separarono da tutti gli stranieri, si presentarono
dinanzi a Dio e confessarono i loro peccati e le iniquità dei loro padri”.
Cosa significa dunque questo timore? Sappiamo, da una lunga tradizione, che i
matrimoni misti nuocciono profondamente alla purezza della nazione israelita e
portano i figli a rinnegare la nazione e [la sua fede], così lo spiegano il Talmud nel
Trattato Yevamot […] e Maimonide (Ha-yad ha-hazaka, Hilkhot issure bia, cap. 13). A
questo proposito il profeta Osea (cap. 5, 7) dice: “Sono stati sleali verso il Signore,
generando figli bastardi”. Questo ci dimostra fino a che punto i capi di Israele si
fossero preoccupati della purezza del popolo, [volendo evitare] che si assimilasse
con i matrimoni misti – secondo il versetto (Deuteronomio 7, 3-4): “Non ti imparenterai
con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie
per i tuoi figli”. E poi: “Perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me…”. Si
capisce dunque che il fenomeno cui ci troviamo di fronte, i matrimoni misti, non è
nuovo; Esdra e Neemia, abbiamo visto, vi si sono confrontati e se hanno resistito
e hanno fermato l’assimilazione per realizzare la parola divina, ciò significa che i
matrimoni misti non vanno di pari passo con il ritorno della nazione alla propria
patria.
Il popolo di Israele non cerca di fare del proselitismo. Secondo le parole dei Saggi:”
I proseliti sono insopportabili per Israele quanto la pitiriasi” (Trattato Yevamot 16),
tanto dal punto di vista religioso che da quello nazionale, tranne quelli che vogliono
convertirsi per amore del popolo di Israele e della sua tradizione. Voglio citare uno
degli esempi più positivi e più ragguardevoli della storia del nostro popolo tratto
dalla Bibbia: Rut la moabita che aspirava vivamente e sinceramente a diventare
ebrea. Ha detto alla suocera Noemi (Rut 1,16): “Il tuo popolo sarà il mio popolo”
(è la nazione) “e il tuo Dio sarà il mio Dio” (è la religione). Rut pensava fosse
sufficiente adottare la nazione, ma Noemi non ha accettato fino a quando non si è
impegnata ad [adottare] anche la religione. Rut ha diritto a un posto d’onore nella
storia del popolo ebraico ed è il simbolo di coloro che si convertono “con il cuore
e con l’anima”.
Per questa ragione, [mi chiedo] che cosa impedisce alle donne straniere che hanno
sposato (non secondo la nostra legge) degli ebrei in diaspora, di diventare parte integrante
del nostro popolo. Se queste desiderano sinceramente far parte del popolo
ebraico quando vengono a vivere nello Stato di Israele, il centro del popolo ebraico,
niente si oppone al loro diventare ebree secondo l’antica tradizione israelita.
In questo modo, [tale donna] dimostrerebbe di aver deciso di integrarsi nel nostro
popolo e di aver abbandonato la propria identità straniera (non si tratta qui soltanto
di religione o di coercizione religiosa). Ma se questa conserva la propria identità
straniera, è dubbio che lei e le sue simili possano essere di grande utilità al popolo,
anche dal punto di vista nazionale. Possiamo inoltre chiederci quale educazione
potrebbero dare ai loro figli che crescono nello Stato di Israele.
E se Lei si stupisce e si chiede: “E allora, un ebreo che non osserva la Torah e la
tradizione, lo si allontana per questo dal popolo ebraico?”. Certamente no! È nato
ebreo e lo resta nonostante trasgredisca i precetti della religione, come un figlio
che, per quanto disobbedisca al padre, resta sempre suo figlio. Questa qualità non
può trasformarsi e [secondo la sentenza dei Saggi] un ebreo resta tale, anche se ha
trasgredito la legge. […]
[Resta che] la fede nella Rivelazione del Sinai si è scolpita nel cuore della nazione
e finora non si è indebolita. [Perciò] da allora, e fino ai giorni nostri, gli uomini e
le donne stranieri, e i figli di donne non ebree, che desiderano trovare asilo sotto
le ali della provvidenza e della nazione ebraica e [vivere come ebrei] devono prima
accettare la religione ebraica con tutto ciò che questa comporta, comprese la circoncisione
e l’immersione rituale. Solo a tale condizione potranno essere considerati
parte della nazione come spiegano il Trattato Yevamot 46 e Maimonide [Ha-yad
ha-hazaka, Hilkhot issure bia, cap. 14, segg].
Nella Sua lettera menziona un altro punto importante: “D’altra parte, la popolazione
di Israele non si considera una nazione separata dall’ebraismo della diaspora…”.
Infatti, se lo Stato di Israele e i suoi dirigenti riconoscono l’unità del popolo
e la incoraggiano, come possono nuocervi [ammettendo] la registrazione [allo stato
civile], come ebrei, di figli che la regola considera non ebrei secondo la Mekhiltah
(Esodo 21,4), Sifre (Dt. 4,3-5), il Talmud (Trattato Kiddushin 48, Yevamot 23, Maimonide
(Ha-yad ha-hazaka, Hilkhot issure bia, cap. 13) […] e altri riferimenti.
E come [queste persone] potranno sposarsi? Sappiamo che, per legge, i matrimoni
e i divorzi in Israele si contraggono secondo la regola ebraica e, come indicato
nella Sua lettera alla pagina 2, cosa diremmo se il governo decidesse che uomini
e donne (e tra loro figli di donne non ebree), che hanno dichiarato in buona fede
di essere ebrei, e iscritti allo stato civile come ebrei, volessero sposarsi con ebrei o
ebree e se questi si presentassero all’ufficio matrimoni per venire a sapere [in quel
momento che in realtà] non sono ebrei e che il tribunale rabbinico non permette
loro il matrimonio? Non ne sarebbero sconvolti? È possibile che due autorità di
governo, lo stato civile e il tribunale rabbinico, agiscano agli antipodi l’uno dall’altro?
È possibile che queste persone siano pronte ad accettare la religione ebraica
secondo le regole tradizionali della conversione. Perché, dunque, in questo caso,
non dovrebbero farlo a priori, prima di arrivare a una situazione sgradevole e instabile?
Oppure, al contrario, se non vogliono accettare la religione ebraica, potrebbero
sporgere denuncia contro il governo. Quest’ultimo potrebbe allora decidere di
legalizzare il matrimonio civile per questa categoria di persone? Possiamo chiederci
se valga la pena fare una tale rivoluzione nel popolo ebraico per un numero minimo
[di stranieri]? Dovremmo di nuovo affrontare una divisione profonda nella
popolazione. […]
Per questa ragione mi sembra opportuno e necessario cercare le strade che portano
all’unità della nazione, ciò cui aspirano tutti quelli che sono legati alla nazione e allo
Stato di Israele. Dio voglia che i dirigenti dello Stato siano in grado di trovare la
strada che conduca a questo obiettivo tanto desiderato.
I miei rispetti.
(23 marzo 2014)