Le Ardeatine e la Memoria

vercelliSettant’anni sono trascorsi dal massacro delle Fosse Ardeatine. Le ricorrenze si sono succedute, molte iniziative si sono avvicendate nel corso del tempo, spesso intrecciando quel terribile passato con le tensioni, i timori così come le speranze, del momento presente. La specificità di quell’eccidio, consumatosi nella capitale di un Paese sospeso nel limbo dell’occupazione nazifascista, nel mentre una guerra atroce non solo perché mondiale ma in quanto di sterminio, rivolta contro una parte della popolazione civile, imperversava in tutto il Continente, ed oltre esso, è stata narrata in molti modi. La questione, ancora un volta, non rinvia tanto alla storiografia, ossia alle modalità che una disciplina della conoscenza adotta per ricostruire e concorrere a socializzare una vicenda dalle molte implicazioni, bensì alla traslazione mnemonica, alla sua trasmissione come sapere diffuso. Poiché il bene, se così lo si intende chiamare, della consapevolezza e del ricordo collettivo di quei fatti è stato ripetutamente esposto alle aggressioni dei revisionismi, più o meno interessati, a partire da quello alimentate, dall’immediato dopoguerra in poi, dagli stessi autori della strage. La quale, a ripetute ondate, è stata sottoposta – e continua ad esserlo – a interpretazioni malevoli, tendenziosi, sostanzialmente falsificanti. Sul piano della ricostruzione storica parole pressoché definitive sono state dette nel corso del tempo, a partire dall’encomiabile ricostruzione di contesto operata da Alessandro Portelli. Molto da aggiungere, al corpus di competenze, che permettono di stabilire nessi e causalità, ma anche e soprattutto di evitare false attribuzioni di responsabilità (speculari all’attenuazione o alla cancellazione di quelle reali), non necessiterebbe aggiungere. Si sono ricostruiti i legami tra l’attentato di via Rasella, il ruolo delle componenti resistenziali, le decisioni tedesche, la catena di comando che portava da Hitler e Kesserling a Kappler e Priebke, la collusione degli apparati della Repubblica sociale italiana (allora come in tutte le vicende criminali ed assassine che insanguinarono l’Italia nei seicento giorni di guerra di Liberazione), le dinamiche tra “punizione esemplare” e occultamento del delitto, così come, a distanza di non molto tempo, con l’arrivo degli anglo-americani a Roma, nel giugno del 1944, l’opera di ricostruzione – quasi archeologica – dei fatti e di recupero dei corpi così come della memoria delle vittime. A distanza di molti anni da quegli eventi ciò che si ripropone come urgente non è quindi un esercizio, in sé già assolto, di riconsiderazione storica del massacro ma, del pari ad altri eventi luttuosi che hanno coinvolto un’intera città, e di riflesso una nazione, una rinnovata attenzione verso le forme del ricordo. Il complesso monumentale delle Ardeatine, visitato ogni anno da un grande numero di persone, a partire dalle scolaresche, è parte integrante di questo profilo di interrogativi, irrisolti non perché alimentati dal gusto del dubbio permanente ma poiché motivati dal fatto che la memoria è di per sé mutevole. Essa, infatti, parla del passato usando la lingua del presente, dovendo rispondere agli interrogativi di quest’ultimo tempo o non di altro. A tale riguardo sono di estremo interesse e di immediata pertinenza le considerazioni che Adachiara Zevi, architetto e storica dell’arte, avanza nel suo recentissimo volume intitolato ai «Monumenti per difetto, dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo» (uscito queste settimane per i tipi della Donzelli). Dinanzi alla persistenza, nel pensiero di molti, di una concezione statica della monumentalità, della testimonianza attraverso l’architettura, dei linguaggi visivi e ideativi legati alla fisicità dei luoghi, l’autrice raccoglie, riannoda e sviluppa un percorso tra le diverse forme della raffigurazione basato invece sulla mobilità, ossia sul mettere l’osservatore nella condizione di fare propria almeno una parte dell’esperienza trascorsa, evitando quindi la passività implicata dalla musealità tradizionale e dalla celebrazione dei mausolei. Partendo dal luogo per eccellenza del martirologio romano e arrivando alla miriade di sampietrini collocati laddove i deportati furono sottratti alla loro esistenza quotidiana per essere proiettati nell’inferno della prigionia e poi della morte, Zevi ci riconsegna la traiettoria evolutiva di un pensare che non è solo architettonico ma rimanda alla stretta fisicità della memoria. La quale si alimenta non solo di ricordi e idealizzazioni ma del loro rapporto con i luoghi, con gli eventi materiali, con gli individui che ne furono – volenti o nolenti – protagonisti, in altre parole con tutte le cose del passato. Che sono una miriade, che spesso sfugge al nostro controllo. Le forme della celebrazione del passato sono mutate nel corso del tempo, per proiettarsi verso orizzonti del tutto inediti, basati non solo sulla riflessione nel merito di quello che è stato ma anche e soprattutto sui canoni del riflettere, in quanto esercizio critico permanente. La dichiarazione contenuta nel volume, quando in esso si afferma che come la memoria così le forme in cui essa si articola non sono mai neutrali, ovvero non costituiscono un mero rispecchiamento oggettivo degli eventi, essendo semmai – letteralmente – una loro ricostruzione, non è in alcun modo una dichiarazione di resa rispetto alla questione della conoscibilità del passato bensì la consapevolezza che conoscere vuol dire riconoscere, ossia stabilire cosa è prioritario, in quel che resta di ciò che fu, per il nostro presente. Il ricordo collettivo, allora, tanto più se articolato in una serie di esperienza visive, tattili, relazionali (e quindi emotive), come nel caso dei «luoghi della memoria», più che proiettarsi come consapevolezza di un cono d’ombra verso qualcosa di distante si fa squarcio di luce verso il presente. Non è forse un caso che ad impressionare di più i visitatori siano, frequentemente, quelle installazioni che comprendono, tra le altre cose, fenditure fisiche, interruzioni nella continuità espositiva, manifestazioni di irregolarità che rinviano al senso dell’esperienza di vita interrotta, così come al raggio di sole che erompe nelle tenebre. Due aspetti paradossalmente speculari, che indicano quanto la negazione (della vita) del pari all’affermazione (del diritto ad esistere) possano essere l’orizzonte potenziale di qualsiasi società. Ovvero, di come il crinale tra barbarie e modernizzazione sia una faglia assai piccola, quasi impercettibile, facile quindi da varcare, non importa quanto inconsapevolmente. Le indicazioni e le suggestioni che il lavoro di Adachiara Zevi offre sono molteplici, non rivolgendosi solo agli addetti ai lavori ma cercando di mettere in tensione campi diversi del sapere per parlare ad un pubblico in più ampio possibile. Per immediata associazione di idee il pensiero va al padiglione italiano, il blocco 21, del Lager di Auschwitz, e al suo destino, assai poco avvincente. Più in generale, a partire dalla riflessione sul ricordo della strage ardeatina, il rimando, in una società come la nostra – ossessivamente ripiegata sul tempo presente, dove reale e virtuale tendono a elidersi vicendevolmente, con la vittoria del secondo sul primo – al problema di come ci si confronti con un passato che non deve passare (invano) è impellente. Tanto più nell’età dove anche l’ultimo testimone viene a mancare e si entra, a pieno titolo, in un’epoca di «postmemoria» (Marianne Hirsch). Evitando l’inflazione di comunicazioni esortative, prescrittive e moralistiche, che si svuotando di contenuto da sé nel momento stesso in cui vengono pronunciate, così come, tentazione quest’ultima oggi molto diffusa, il ritenere che le diverse narrazioni e gli opposti punti di vista (vittima, carnefice e spettatore) siano non solo speculari ma anche reversibili e sostituibili gli uni con gli altri, come se tutto si equivalesse. La memoria abita lo spirito umano ma non è un abito da indossare ogni giorno, indifferenti alle sue pieghe, alla sua fattura, alla composizione del suo tessuto. Della consapevolezza di un’assenza, quella di coloro che furono allora assassinati ma anche dell’incapacità per parte nostra di farcene una ragione una volta per sempre, consegnando ai registri dell’oblio il tutto, nasce quel senso produttivo del «difetto», della sottrazione, del celato ma percepibile, che è parte integrante del buon uso del ricordo di cui ci parla l’autrice del libro. Con la quale, alla Casa della Memoria di Roma, domani sera, lunedì 24 marzo 2014, alle ore 17.30, affronteremo in una conversazione rivola al pubblico, questi ed altri temi.

Claudio Vercelli

(23 marzo 2014)