L’uomo che cammina

Francesco Moisés BassanoChissà dove è diretto “L’homme qui Marche” dello scultore Alberto Giacometti. Sguardo assente e smarrito, curvo su stesso, è stanco dal troppo camminare, potrebbe andare avanti o girare in circolo tornando sui passi già percorsi, destinato in ogni caso a non fermarsi. Poche sculture potrebbero descrivere meglio l’umanità contemporanea, almeno da uno sguardo distaccato. Più da vicino, come uomini abbiamo prematuramente anticipato la nostra utopia di “futuro”, con l’illusione di essere i soli in possesso del nostro destino e di poterlo prevedere, ci sembra che niente sia ormai ignoto, che niente possa fermarci, dominati come siamo da manie di grandezza e deliri/volontà di (onni)potenza. In realtà vogliamo fuggire ed evadere da un presente (e un domani) molto più grave e incerto, che ci è sfuggito dalle mani ed è fuori dal nostro controllo. Nonostante l’entusiastico progresso e il nostro grado di conoscenza, l’oltre-uomo compiuto è lo stesso uomo primordiale che dalle caverne si è ritrovato catapultato in mezzo a una luccicante e frastornante metropoli, forse al contrario, più ci avviciniamo allo scibile, e più ci allontaniamo da noi stessi e dalla nostra natura – e dunque dal vero, dalla verità e da D-o. Come domandarsi se “la troppa luce ci illumina, o invece ci acceca”. Non siamo pienamente consapevoli, della nostra sconfitta e condizione di impotenza e debolezza, poiché da tempo non cerchiamo più di tormentarci e trattare gli irrisolvibili problemi filosofici o rimediare ai nostri fatali errori, ci siamo illusi invece di poterli aggirare e scavalcare del tutto. La scienza empirica e applicata è più conseguibile e facilmente dimostrabile di ciò che è oltre la fisica, alla natura e alla sua preservazione optiamo per la sostituzione di un “più” gestibile e controllabile artificio e simulacro. “L’orologiaio”, proposto alternativamente e metaforicamente da Voltaire, rimane per certi sconosciuto o irraggiungibile, per altri dunque assente o superfluo, e l’orologio perfetto che Egli ha costruito l’abbiamo manomesso e adesso è un po’ difettoso, abbiamo allora tentato di costruirne uno più semplice, ma imperfetto e vacuo, perché privo di legge. Qui tutto è de-costruibile, tutto è relativo, tutto allora, è nulla. Non abbiamo mai raggiunto l’auspicata e ricercata eudaimonia degli antichi greci. In bilico su una fune, non sappiamo più se indietreggiare nella sicurezza di un passato di luci e ombre – da cui saremo comunque inevitabilmente vincolati, confusi, e influenzati – o proseguire in avanti verso un già intrapreso “cattivo infinito”, impervio di ostacoli, sfide e punti interrogativi. La Torah non ha né inizio né fine, è eterna, continua e si protrae nel tempo, né è al di là. Gli israeliti che attesero nel deserto il ritorno di Mosè dal monte Sinai, avranno aspettato mesi, anni, forse secoli, un periodo cronologicamente indefinibile, così che nella loro struggente impazienza, nella testardaggine o nel disincanto, preferirono costruire il vitello d’oro come guida e propria divinità, un idolo materiale, tangibile e sempre adorabile, nonostante la piena consapevolezza che esso non detenesse nessun valore, trascendente o immanente, solo un oggetto inanimato e fuso con le proprie stesse mani. Ma come i maestri insegnano, esso non simboleggia né il ritorno a un idilliaco passato, né il salto a un glorioso avvenire diretto dall’uomo, solo una regressione verso l’Egitto, e quindi di nuovo incontro alla schiavitù. Sta a noi, adesso come allora, scegliere se prostrarci di fronte a sempre nuovi e insulsi feticci, restando nelle stesse catene assemblate ancora una volta da noi stessi, o liberarci per seguire la strada che ci è stata da sempre indicata, ritrovabile in ogni circostanza della nostra esistenza, in molteplici forme e sentieri, a cominciare dal nostro cuore. Non è mai troppo tardi, almeno spero…

Francesco Moises Bassano, studente

(28 marzo 2014)