Popolo, tecnica e consenso

claudiovercelliL’ottimo risultato ottenuto dalle liste del Front National di Marine Le Pen nelle recenti elezioni amministrative francesi ci obbliga a ritornare su un argomento che già era stato fatto oggetto di riflessioni, ossia lo spazio del populismo. Il quale, in estrema sintesi, si nutre della grave crisi della politica come forma di rappresentanza organizzata, credibile e legittimata, degli interessi collettivi. Il populismo, in altre parole, non è già una delle forme o delle ideologie di cui si nutre la politica, propendendo semmai a sostituirsi integralmente ad essa. Come tale, si percepisce e si autodefinisce nei termini di una totalità, un insieme conchiuso e sufficiente a sé di posizioni, atteggiamenti e scelte. In questo senso, ambisce non tanto a definirsi come di «destra» o di «sinistra», cercando semmai di togliere qualsiasi credibilità a questa divisione tradizionale dello spazio politico contemporaneo, per sostituirvi se stesso, in quanto insieme organico di posizione connotate da un interclassismo degli interessi e da una logica che vorrebbe – quanto meno tendenzialmente – abrogare la competizione tra frazioni (e partiti) contrapposti.
La lunga stagione del populismo, in Europa, data ad almeno trent’anni, se non più, benché gli effetti più eclatanti si siano misurati solo in tempi recenti. Esiste infatti un nesso culturale (e ideologico) tra questa concezione della politica – che ad esempio negli Stati Uniti ha sempre avuto un discreto spazio – e la stagione liberista, più impropriamente definita anche neoliberale, che ha connotato le trasformazioni del pensare collettivo dopo i forti cambiamenti avvenuti con gli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta. Se il liberismo, che non è solo una dottrina economica ma si presenta come una visione globale delle relazioni sociali, idealizza il ruolo del «mercato», al quale ascrive virtù di auto-organizzazione, predica l’astensione dello Stato dagli scambi, ritiene che le diseguaglianze economiche abbiano una loro ragione d’essere, riposando sulla differenza «naturale» tra gli uomini, il populismo si concentra invece sulla centralità di ciò che intende come «popolo», inteso nella sua presunta valenza di soggetto storico unitario, moralmente virtuoso e culturalmente omogeneo, depositario di valori autentici e originari, al quale si contrapporrebbero élite che ne conculcano la sovranità. Queste ultime, intese come corporazioni ristrette, gruppi conchiusi, circoli d’affari e quant’altro (le cosiddette «caste») sarebbero, in ultima istanza, le vere responsabili della crisi che attraversa il continente europeo. Il loro operato, dicono i populisti, è “innaturalmente” rivolto contro i diritti, i valori, i beni, l’identità e la possibilità di esprimersi del «popolo sovrano».
Il punto di contatto tra liberismo e populismo è la diffidenza che l’uno e l’altro nutrono nei confronti della politica come spazio pubblico. Mentre il primo enfatizza l’individuo come soggetto utilitarista, in grado da sé di calcolare di volta in volta quale sia il suo reale interesse (inteso perlopiù in chiave economica), per poi utilizzarlo nel mercato, inteso come l’unica dimensione collettiva praticabile, il secondo concepisce la società come un blocco di individui tra di loro accomunati da interessi omogenei, destinati quindi ad avere un comune orizzonte d’azione. Proprio per questa ragione il populismo considera la funzione dei corpi intermedi (partiti, sindacati, associazioni d’interesse e di scopo ma anche le stesse istituzioni nelle loro complesse ramificazioni), così come le stesse mediazioni politiche, in quanto veri e propri furti di rappresentanza. Quest’ultima può essere invece solo diretta, ciò sorgere ed esprimersi unicamente in capo al popolo medesimo, senza dovere passare per filtri o quant’altro. Da ciò deriva quindi l’attacco alle élite tradizionali, per l’appunto intese come soggetti che fingono di volere il bene pubblico per poi invece praticare esclusivamente i propri interessi; la mitologia del popolo in quanto moltitudine cosciente di sé, capace di capire da sola quali siano le sue reali esigenze; l’esaltazione del “plebeismo”, ossia di uno stile di condotta diretto, a tratti anche esplicitamente volgare, basato su rapporti orizzontali, non gerarchici, dove gli individui si riconoscono tra di loro come pari, non adottano mediazioni intellettuali, si confrontano direttamente e senza il concorso di gruppi di rappresentanza; ma anche il ruolo indiscusso attribuito al leader carismatico, in quanto interprete dei “sentimenti popolari”, incarnazione fisica, umana di un comune sentire, così come l’enfasi sul rapporto diretto che intrattiene con il popolo in quanto, ancora una volta, massa di individui indistinti; l’appello costante alla mobilitazione affettiva e sentimentale (ci vogliamo bene, siamo dalla parte del bene, le nostre sono le intenzioni più nobili che ci siano e, come tali, non solo sono indubitabili nella loro costituzione morale ma anche insindacabili, ossia non giudicabili da altri); alternativamente, come a volte in successione, la retorica nazionalista (siamo un unico popolo, su base etnica, legato da vincoli profondi, anche di «sangue») oppure localista (siamo legati alla terra dalla quale proveniamo e nella quale viviamo, tutto il resto ci è «straniero» e come tale tendenzialmente ostile) nonché antimperialista (ciò che fuoriesce dal nostro immediato interesse, dal nostro orizzonte, costituisce una minaccia per la nostra stessa esistenza: il mondo è un pericolo, abitato da coalizioni di «poteri forti», oscuri e minacciosi).
In questa logica, la nozione di popolo non è razionale bensì intuitiva e astratta: si affida non ai riscontri, giocando semmai sulle sensazioni che derivano dal partecipare alla mobilitazione degli spiriti e delle fantasie. Il popolo è quindi inteso, secondo un procedimento mitologizzante e idealistico, nella sua presunta dimensione etico-antropologica, ossia in un’identità che sarebbe immodificabile e che costituirebbe il suo patrimonio più prezioso. Di certo, esso non coincide più con una o diverse condizioni di ordine sociale e professionale e neanche con quelle differenze culturali che compongono di fatto la ricchissima stratificazione delle nostre società. Da ciò deriva uno dei tratti più marcati del populismo, ossia il suo a-classismo (che è cosa diversa dall’interclassismo dei vecchi partiti, che cercavano di raccogliere il maggiore numero possibile di adesioni offrendo programmi rivolti a gruppi sociali differenziati), ovvero il disconoscimento della stratificazione sociale e, in immediato riflesso, della complessità delle relazioni intracomunitarie. Già si è avuto modo di rilevare come tale pensiero costituisca una straordinaria – e potenzialmente pericolosa – semplificazione del presente, al limite della sua più vieta banalizzazione. Rimane il fatto che il populismo ottiene crediti e consensi crescenti laddove ad esso si opponga solo quel tipo di atteggiamento che potrebbe essere definito come controproposta tecnocratica, il reciproco inverso delle ingenue ma diffuse illusioni che il primo propaganda come verità incontrovertibili. La tecnocrazia è una forma di governo in cui le decisioni politiche vengono prese dai cosiddetti «tecnici», cioè da esperti di materie tecnico-scientifiche o più in generale da studiosi di campi specifici, così come da politici rivestitisi dei panni di «amministratori». Il tecnocrate sostiene sempre il primato dei saperi tecnici sulla politica, tanto più se quest’ultima è decisione che nel privilegiare certuni svantaggia altri, operando scelte di merito.
Del pari afferma che il problema, nelle nostre società, non è la mediazione tra interessi contrapposti ma la decisione “migliore”, la quale deriva sempre dall’essere titolare di una conoscenza superiore, che si impone, in quanto tale, per la sua oggettiva qualità. I tecnocrati sono perlopiù individui con elevata istruzione tecnico-scientifica, i quali esercitano occupazioni in cui si studia come risolvere problemi economici e tecnici proponendo soluzioni basate sulla tecnologia. In tutti i casi le capacità tecniche e di leadership vengono selezionate attraverso processi burocratici, sulla base di conoscenze specializzate piuttosto che in ragione di un’elezione democratica. È il caso, per intendersi, dell’operato di molti organismi dell’Unione europea e delle organizzazioni internazionali. Al ruolo tecnocratico è associata la «meritocrazia», la scelta dei decisori tra coloro che di più e meglio sanno (o dovrebbero sapere), mentre in linea generale il governo delle cose umane è presentato come un fatto asettico e neutrale, trattandosi, per l’appunto, di una questione esclusivamente “tecnica”, fondata sulla competenza e sulla bravura individuali. La seduttività di questo approccio oscura tuttavia il conflitto che qualsiasi forma di gestione degli affari pubblici porta con sé, laddove si ha a che fare con un’arena dove non si può mai astrarre dalla contrapposizione tra interessi inevitabilmente differenti. Il processo democratico, infatti, non si basa sull’occultamento di questo elemento bensì sulla capacità di mediarlo in modo tale da non distruggere il tessuto sociale con la prevalenza del più forte. Fatto, quest’ultimo, che sembra invece tornare in auge nel momento in cui le diseguaglianze sociali, varcate una certa soglia di assorbimento, diventano di nuovo fattori di forte polarizzazione nelle nostre società. I populisti di ogni genere e risma si muovono a loro agio in questi frangenti, candidandosi a rappresentare il grido di protesta di quanti si sentono esclusi, emarginati dai processi in atto. Se la tecnocrazia si rivolge ai pochi, ossia a quanti pensano di avere le qualità per governare senza dovere rendere conto ad altri che non siano i loro stessi omologhi, il populismo si dirige in senso esattamente opposto, appellandosi alle collettività. Tuttavia, nell’uno e nell’altro caso, queste ultime sono comunque messe ai margini dei percorsi decisionali. Poiché mentre il tecnocraticismo è una forma di potere senza verifica, il populismo è una forma di falsa democrazia diretta senza Costituzione. L’uno e l’altro si basano sul convincimento che le norme legali costituiscano perlopiù un vincolo, da evitare ogniqualvolta occorra. Ovvero pressoché sempre.

Claudio Vercelli

(30 marzo 2014)