Bergoglio e i Farisei

Jorge Mario Bergogliodi porto è una bella figura, reca onestà e pulizia morale nella Chiesa, ama parlar chiaro. Sotto il profilo dei rapporti interreligiosi, e nello specifico con l’ebraismo, appare aperto e ben cordialmente disposto. Lo ha dimostrato come arcivescovo di Buenos Aires stringendo, fra l’altro, una bella amicizia con il rabbino Abraham Skorka, letterato e biofisico, rettore del Seminario rabbinico latino – americano, al punto di pubblicare insieme il libro Il cielo e la terra.
Egli continua e sviluppa, con ciò, l’evoluzione positiva impressa, anche nei rapporti con l’ebraismo, da Giovanni XXIII e dal Concilio Vaticano. A maggior ragione, nella sincerità del dialogo, è bene dir con equilibrio la propria, quando sul delicato confine dei due retaggi si registrano posizioni ed espressioni che suscitano una ragionata reattività. Mi riferisco al giudizio tagliente del papa sulla classe dirigente ebraica ai tempi di Gesù, espresso nell’omelia a un folto gruppo di parlamentari ed esponenti politici italiani all’alba del 27 marzo 2014. Il discorso ha mirato alla classe politica dirigente italiana di oggi ma, per abito di ecclesiastico che trova il paradigma nei testi sacri, il papa è riandato ad allora generalizzando e mescolando aspetti diversi e componenti diverse della classe dirigente, e a ben guardare nello stesso popolo. Negli orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della dichiarazione conciliare Nostra aetate, documento del 1974, ben si riconosceva quanto variegato e complesso fosse il giudaismo del tempo.
Il discorso di papa Francesco si distanzia, questo sì, dalle vecchie condanne cristiane del popolo ebraico nel suo insieme, rilevando, come voleva Jules Isaac, il consenso riscosso da Gesù tra umili connazionali, ma a costo di porre una dicotomia tra la classe dirigente e il popolo, che sarebbe stato trascurato e abbandonato, senza nutrimenti e senza guida. Solo Gesù se ne preoccupava, curando e lenendo bisogni e piaghe, ma dalla compassione del nazareno, o forse soltanto dal racconto evangelico, pare rimossa la causa complementare di disagio, di sfruttamento, di sofferenza dovuta all’oppressione straniera.
La classe dirigente ebraica era formata anche da maestri di tutto rispetto, che la tradizione ebraica onora e di cui raccoglie le voci nelle Massime dei padri. Nella nostra terza annata (1998, p. 114) pubblicammo, al riguardo, per un esempio di risposta ebraica a certe condanne e svalutazioni in blocco, un inedito del biblista Marco Treves dal titolo Gli uomini ammirevoli del primo secolo dell’era cristiana. Non pretendiamo che fossero tutti ammirevoli, ma ve ne erano. C’erano gli opportunisti e i corrotti, come in tutte le epoche, compresa quella, cristiana europea, in cui si erse la riforma ecclesiastica di Gregorio VII, ma c’erano i maestri saggi e benemeriti. Segnaliamo il bel libro di Mireille Hadas Lebel su Hillel maestro della legge al tempo di Gesù. Per il popolo i farisei aprirono scuole, già questa è una bella provvidenza, e non neglessero la tzedakah. I migliori di loro erano i primi a dolersi degli ipocriti tra loro annoverati e il rimprovero di Gesù rientra, con un suo accento, nei reclami morali del tempo. Sui farisei consigliamo di leggere o rileggere il magistrale studio di Travers Herford.
Il discorso papale del 27 marzo, mirato sulla politica italiana di oggi, ha giustamente vituperato il malanno della corruzione, come fa largamente la Bibbia ebraica, nel Pentateuco e nei Profeti, ma si è poi esteso ai saggi ebrei, che non hanno riconosciuto l’avvento di Gesù, perché erano chiusi nella loro ideologia. Non credo sia questo il termine idoneo a denotare il complesso della loro dottrina, del saldo monoteismo, della vasta tradizione di Israele, dei suoi sviluppi biblici e postbiblici, dell’elaborazione giuridica, di riforme che non mancarono. Johanan Bar Zakkai, che assicurò la sopravvivenza del giudaismo nella rovina dello Stato e del Tempio, con la scuola di Javne, rientra anche lui nel gruppetto indurito, facile a scivolare dall’indurimento nella corruzione, di cui ha parlato il papa Bergoglio, nell’omelia? Ovviamente in divario dalla strada aperta da Shaul di Tarso, apostolo delle genti, ma i rispettivi intenti e valori andrebbero distintamente compresi se i rispettivi eredi si vogliono oggi intendere. La disputa immaginaria tra un rabbino e Gesù di Jacob Neusner, che ha interessato il predecessore Benedetto XVI, spiega, in lucidi termini moderni, come un ebreo dabbene potesse non aderire al messaggio del Nazareno nella sua assolutezza, pur condividendo parte del suo insegnamento sul comune denominatore dell’eredità ebraica.
Volendo, nella sua fede, far rifulgere contro i corrotti della politica italiana la perfezione del Cristo, il papa ha ripreso il topos per eccellenza della polemica contro i suoi concittadini, che ne condivisero l’epoca. Salva gli umili, sempre a lui cari, ma si può ricordare che a Gesù la sepoltura fu pietosamente data, nel suo privato sepolcro, da Joseph, “un uomo ricco di Arimatea>” (Matteo, cap. 27).
Alla fiduciosa simpatia per papa Francesco associamo in conclusione nel dialogo la “claridad meridiana>”, come dice il suo amico Abraham Skorka. Non tacciamo e non esageriamo su una omelia del giorno. L’Osservatore Romano, che abbiamo consultato come la fonte più attendibile per leggere quello che ha detto, l’ha posta a pagina 8.

Bruno Di Porto

(L’articolo uscirà sul prossimo numero del periodico Hazman Veharaion – Il Tempo e L’Idea)