purezza…

Le regole di purità e impurità rituale sono legate a manifestazioni fisiche che possono colpire uomini, oggetti, cose o abiti. Come si vede, il concetto di purità ed impurità è connesso a tutto l’ambiente che circonda l’uomo, ed è pertanto relativamente all’uomo che dobbiamo cercare di inquadrare tali manifestazioni.
È da domandarsi come mai la Torà si occupi di particolari della vita che ad un primo sguardo sembrano essere estranei alla sfera della “religiosità”, del rapporto con il Divino. La realtà è che ciò che qui si esamina è solo esteriormente un fatto di malattie corporali, infezioni fisiche o simili. Di fatto queste affezioni sono legate a malattie dell’anima, sono esteriorizzazioni di problemi etici e religiosi. Ne è dimostrazione il fatto che la persona preposta ad esaminare, giudicare e dichiarare la malattia o la guarigione è il Kohèn.
È quindi evidente che per la Torà corpo ed anima sono inscindibili. Non a caso i Maestri del Talmùd asseriscono che la più grave delle affezioni di cui parla la Torà è la tzarà‘ath, ed è in stretta correlazione col lashòn ha-rà‘, la maldicenza. La tzarà‘ath può manifestarsi attraverso rigonfiamenti o avvallamenti, con cambiamenti di colorazione della pelle in continuo divenire; anche la maldicenza può essere evidente o nascosta, ma in ogni caso muta il rapporto interpersonale a seconda della maggiore o minore forza d’impatto del danno causato.
È quindi logico che chi valuta e cura queste affezioni sia il Kohèn, il medico dell’anima. È ai Kohanìm che spetta questo delicatissimo compito, perché essi hanno le cognizioni necessarie per restaurare l’armonia spirituale in mezzo a Israele. A noi invece il compito di evitare di cadere nella maldicenza, che è la malattia più contagiosa dell’anima: non a caso, infatti, i Maestri rilevano che una parola incauta proferita da una persona danneggia chi la proferisce, chi ne è oggetto e chi l’ascolta.

Elia Richetti, rabbino

(3 aprile 2014)