Il senso di ciò che pare essere insensato

vercelliNon è compito di queste righe offrire una diagnosi sui tempi correnti, ossia sulla natura e le matrici della crisi che come Paese stiamo attraversando. In parte perché l’argomento, nelle sue tante declinazioni, può risultare off topic, ossia fuori tema rispetto a una newsletter ebraica. Poi – ed è questo, in fondo, l’aspetto più rilevante -, data la sua natura incontenibile (nel senso che si presta a molte sfaccettature interpretative, non sempre riconducibili a un unico denominatore e a un solo livello di analisi), perché comporta il rischio di fuoriuscire da un’analisi che intenda mantenere il rigore e la comprensibilità che si chiedono a una lettura lucida, e disincantata, del difficile presente. Rimane il fatto che le ricadute di una crisi di trasformazione, qual è quella che stiamo vivendo, si ripercuotono immediatamente sulla vita degli ebrei, di qualsiasi Stato siano cittadini. Il raccordo, fatto alcune settimane fa, con il crescere dei populismi in Europa e, più in generale, dei radicalismi politici, va purtroppo in questa direzione. Quel che è certo è che, volenti o nolenti, siamo entrati in un’epoca post-costituzionale e post-democratica. Cosa vuol dire e, soprattutto, cosa implica questa affermazione? Non ci troviamo dinanzi alla negazione delle premesse costituzionalistiche e liberaldemocratiche che hanno accompagnato la storia contemporanea del nostro Paese, quanto meno dal superamento del fascismo in poi, ma a una loro revisione di fatto. Aspetto che implica una contrazione (come anche una decadenza) di una parte degli istituti che tutelano la società nel suo essere un corpo tanto articolato, complesso, stratificato quando necessitante di costanti interventi. Il binomio libertà ed eguaglianza, inteso dagli stessi padri costituenti come elemento da giocare sul piano delle identità derivanti dal lavoro, dalla dignità che da esso matura, dal suo costituire il fuoco della coesione sociale, si è interrotto se non in parte spezzato. Un fatto che dipende da molte ragioni ma che sta soprattutto dentro le trasformazioni perpetue che quel processo che chiamiamo “globalizzazione” ha incentivato. Pensare alle società come a delle realtà perenni e imperiture, destinate a rimanere sempre uguali a sé, è ingenuo. Il punto, semmai, è un altro: quanto il mutamento avvantaggia oppure danneggia le collettività che ne sono direttamente coinvolte? Quanto (e cosa) cambia per noi italiani, più prosaicamente? Il mutamento geopolitico ha già registrato il significativo spostamento di capacità economica e di potere politico dal consesso di paesi che ruotano intorno all’Europa continentale, agli Stati Uniti e al Giappone all’area del Pacifico e di parte del Sud-Est asiatico. Anche la nuova Russia di Putin si candida a essere un global player. La costruzione del mercato globale ha portato dal sistema degli scambi economici e finanziari regolati, secondo il principio della stabilità, dagli accordi di Bretton Woods del 1944, alla loro liberalizzazione. Un fatto, quest’ultimo, avvenuto già con gli anni Ottanta. I processi della cosiddetta “deregulation”, il superamento di vincoli – ma anche di norme a tutela – dei mercati ha inciso enormemente nella riconfigurazione di ruoli e, soprattutto egemonie. Sussiste un nesso diretto e immediato tra la crisi economico-finanziaria che come Paese viviamo e il nodo dell’integrazione sociale, ossia i modi e le ragioni per cui stiamo insieme, costituendo una società unitaria. La prima si riflette immediatamente sulla seconda. I diritti sociali (a partire da quello ad avere un lavoro e, con esso, una retribuzione dignitosa), i processi di integrazione (stabilire comuni denominatori per tenere insieme persone diverse senza sacrificarne la soggettività), quello che è stato definito “compromesso socialdemocratico” tra capitale e lavoro (sì al profitto privato ma redistribuzione di una parte della ricchezza prodotta dal lavoro ai lavoratori medesimi) sono in forte tensione, per non dire contrazione. Le questioni aperte, a tale riguardo, rinviano non solo agli effetti di scompaginamento dei vecchi equilibri degli Stati nazionali che conseguono alla costruzione di un mercato globale ma anche ai grandi temi della definizione di un unico spazio tecnico planetario, all’ambiente tecnologico come luogo di costruzione delle identità e delle relazioni interpersonali, all’estensione del dominio della tecnica nei rapporti quotidiani. Temi non solo di ordine culturale, e neanche filosofico, ma strettamente fattuali, ovvero legati alla quotidianità di ognuno di noi. E al modo in cui ci percepiamo, ci viviamo, ci mettiamo in relazione con i nostri simili. A ciò si aggiungono altri elementi. Il mutamento del modo di intendere l’identità civile e sociale, che all’idea di cittadino ha invece sostituito quella di consumatore, si incontra con gli effetti della costruzione di un mondo virtuale, che in parte si sovrappone all’esperienza concreta che si fa con i rapporti personali, quelli non mediati da un monitor. Uno dei risultati è, tra gli altri, il superamento (o quantomeno il livellamento) della distinzione tra pubblico e privato: sul web tutto sembra visibile, concepibile, raggiungibile, esplorabile nel nome di una democrazia elettronica che è tanto seduttiva quanto fittizia. Alla stagione dell’espansione economica, che abbiamo vissuto come Paese fino agli anni Settanta, dove l’accesso al benessere da parte della maggioranza della popolazione, l’incremento delle tutele e dei diritti nonché la partecipazione ai processi decisionali erano tra i connotati più significativi, si è ora sostituito un nuovo scenario. Il quale è dominato dalla trasmigrazione del potere verso luoghi transnazionali, dalla crisi delle forme tradizionali della rappresentanza politica e della decisione collettiva e dal declino dello Stato nazionale come luogo primo e ultimo della sovranità. Non sono questioni da poco, a ben pensarci. Si sta verificando una sorta di frattura tra spazio di vita (il territorio nel quale ognuno di noi vive la sua esistenza) e i luoghi dell’accumulazione economica, sempre meno legati alle attività manifatturiere. Quanto meno in Occidente. La ricchezza, la sua produzione, la sua raccolta e la sua redistribuzione, si fanno indipendenti dai luoghi fisici e dal controllo da parte dei gruppi di pressione locale. Qualcuno ha osservato che siamo in presenza di un “nuovo internazionalismo”, quello coltivato da una upper class, anch’essa non a caso transnazionale, che trae giovamento da questi percorsi, disinteressandosi dei numerosissimi riflessi e delle tante conseguenze che inevitabilmente si misurano sulle società nazionali. Da ciò anche un altro fenomeno comune, ossia il fatto che nel mutamento le regole sembrano valere solo per certuni, quanti si trovano nella scomoda posizione di subire gli effetti delle decisioni dei pochi, mentre per questi ultimi pare vigere una sorta di esenzione a prescindere. Le élite dirigenti, che sempre più spesso paiono estranee ai problemi delle comunità che pur dicono di rappresentare, vivono l’orizzonte del presente come un campo di opportunità, di contro al modo in cui è percepito dalla maggioranza delle persone, che si sentono invece sempre meno tutelate e sempre di più lasciate al proprio destino, in sé incontrollabile poiché dominato da forze e flussi che sfuggono alla comprensione e al dominio del singolo e dei suoi pari. Viviamo in una realtà supertecnologica, dominata da un’apparente prevedibilità, dove tutto parrebbe essere sottoposto a processi di prevenzione e gestione. Nei fatti, però, l’esperienza che facciamo è capovolta. Ci sembra che il significato delle cose, tanto più quando queste si presentano come problematiche, sfugga al nostro controllo. Anche da ciò, e dal senso di dissonanza che ci deriva dalla sfasatura tra affermazioni di principio, ripetute in forma ossessiva e a mo’ di prescrizione di condotta, e situazioni concrete, consegue l’illusione che le virtù decisionali riposino nella democrazia diretta e immediata. Il modello giacobino, dove la sovranità è attribuita al “popolo” senza filtri e rappresentanze intermedie, è una falsa libertà. Fa il paio, nel tempo che viviamo, con l’idea di immediatezza che ci è imposta dal sentirci essenzialmente come dei consumatori, con i criteri del business aziendale, dove efficacia, efficienza e produttività sono gli unici, legittimi parametri di riferimento, con il desiderio di semplificare al massimo, banalizzandola, la complessità degli eventi e delle sfide che ci vengono imposte. Segnatamente, lo spazio dei razzismi e dello stesso antisemitismo riposa in questi anfratti. Dove all’idea di essere espropriati del proprio futuro, alla paura di non contare più nulla, all’angoscia per un processo di emarginazione di cui ci si sente destinatari si sostituisce la fittizia consapevolezza di avere finalmente trovato dei “colpevoli”, in carne e ossa, ai quali attribuire una volta per sempre le responsabilità di un cambiamento di cui non si capisce l’indirizzo né, men che meno, gli esiti a venire.

Claudio Vercelli

(6 aprile 2014)