…Marocco

Con Kesher facciamo una bella visita a quel che resta del Marocco ebraico. Marrakech, Rabat, Fez e Casablanca: piccole sinagoghe piene del fascino del passato, visibilmente un po’ trascurate se non proprio abbandonate. Tanto incanto e molta malinconia. Chi ci accoglie tiene a rassicurarci che gli ebrei vivono tranquilli: il re del Marocco, Mohammed VI, li ama e li protegge, e l’insistenza dell’affermazione ci colpisce un po’. Qualche sguardo si abbassa a guardare il pavimento per coprire col silenzio i vuoti della memoria. È vero che nella nuova Costituzione del 2011 le radici ebraiche compaiono riconosciute, assieme a quelle arabe e a quelle berbere, alla base dell’identità nazionale del Marocco, ma gli ebrei, lì, erano trecentomila e ora sono poco più di seimila, e non se ne capisce il perché. Ciò nonostante, al fianco di re Mohammed VI c’è il consigliere ebreo André Azoulay, come ai bei tempi di Itzchak Abravanel alla corte dei reali di Castiglia. Nessuno fa alcun cenno però ai pogrom del 1948 e del 1953, o agli assalti degli anni successivi. Gli ebrei, dal Marocco, non sono stati formalmente cacciati, ma un concorso di strane circostanze li ha evidentemente spinti a fuggire in massa, verso Israele (spinti da puro idealismo, ci viene detto!) ma anche verso la Francia e l’America. I poveri sono partiti per troppa indigenza, si afferma, ma anche il resto del Marocco era indigente. E nessuno spiega perché siano partiti anche i benestanti abbandonando affetti e proprietà. Israele poi, si sa, non fu per loro l’eden che avevano sognato: nessuno di loro era riuscito a immaginare le difficoltà di un paese nascente, e mai si sarebbero aspettati di potersi ritrovare al fondo della scala sociale. Rimangono, imponenti e tristi, nel paesaggio ebraico marocchino, i cimiteri, con le loro tombe anonime e i sepolcri dei santi rabbini.
A compensare l’effetto d’insieme, bello e depressivo, è stata solo la simpatia del gruppo, affastellato alla rinfusa, con l’effetto di un film di De Funes, ma alla fine ben amalgamato come un couscous vegetariano.
L’amarezza conclusiva del ritorno è stato il pensiero che le nostre stesse comunità (a esclusione delle due maggiori) appaiono certamente al visitatore esattamente come a noi sono apparse le morenti comunità marocchine: ben consapevoli del loro passato, concentrate su una vaga e generica memoria, e non più in grado di coltivare un’identità, personale e collettiva, fondata sulla cultura presente – una cultura che non sia musealità, cimiterialità, defunta trasmissione della storia ad uso e consumo dello studioso.

Dario Calimani, anglista

(8 aprile 2014)