Ticketless – Nel paese della promessa
Mi piacerebbe sapere se la fortuna israeliana di Gilles Clément, architetto di giardini, è pari a quella italiana (“Il terzo paesaggio”, Quodlibet ed.). Nelle discussioni su natura e paesaggio, le idee di questo studioso parigino si combinano con le teorie ecologiste sullo sviluppo sostenibile. Il giardino “in movimento”, concepito per ripristinare negli angoli delle nostre metropoli, il genio naturale dell’Eden perduto, si diffonde ovunque in Europa, ma in Italia trova consenso più che altrove. Per chi si occupa di storie di storia dell’ebraismo, l’idea che il “terzo paesaggio” (le aree abbandonate, residuali, i bordi delle strade di periferia, le aiuole incolte, gli orti lungo i binari ferroviari) possa diventare il regno della diversità, in breve della libertà è senza dubbio affascinante. Il giardiniere non è più lo scenografo di Versailles o di Boboli, che traccia linee e labirinti, ma è un osservatore distaccato della forza della natura. Guarda senza intervenire, se interviene è per favorire la potenza degli esseri viventi (umani, animali, vegetali).
Viene spontaneo chiedersi se la teoria del “terzo paesaggio” sia conciliabile con la trasformazione operata dall’uomo per rendere vivibile e abitabile il paesaggio quando è abbandonato a se stesso (deserto, zone malariche). Viene spontaneo chiedersi se queste teorie siano conciliabili con l’ideologia del sionismo o anche del primo socialismo e della riforma agraria, della scuola meridionale dei Rossi-Doria, degli Zanotti Bianco, dei Sereni. Il paesaggio mediterraneo, nelle sue diverse forme, occupa molto del mio tempo in questo periodo. Cerco di capire perché quando si percorrono certe strade della Basilicata o della Puglia ti sembra di essere in Galilea e viceversa. Oppure quando percorri la campagna romana in automobile e vedi una vegetazione che ti disorienta. Riprendo in mano il libro di Maria Arnaud, una donna socialista, che nel 1905 andò ad insegnare nelle scuole popolari di Giovanni Cena, nell’agro pontino appena bonificato. Si ritrova l’enfasi dei pionieri sionisti, che arano il deserto. Il libro – credo non a caso – porta come titolo “Nel paese della promessa”.
Alberto Cavaglion
(9 aprile 2014)