…assimilazione
L’articolo di cronaca allarmata scritto da Giulio Meotti per Il Foglio del 10 aprile scorso parla chiaro: l’assimilazione e la secolarizzazione stanno completando l’opera di Hitler e fra pochi anni non ci saranno più ebrei in Europa. Con tutto il rispetto per le statistiche e per gli scenari che connettono questioni anche molto diverse fra loro come l’antisemitismo, la paura, i matrimoni misti e l’abbandono delle pratiche religiose, mi permetto di avanzare qualche dubbio sulla linearità di questo “ineluttabile” processo di scomparsa. Parto dall’esperienza personale: sono decenni che questo discorso ritorna, e sono decenni che studiosi ed esperti predicono la scomparsa della diaspora europea. Ma nulla di questo è accaduto. Per quel che riguarda la marginalissima diaspora italiana i numeri nel dopoguerra non sono mutati in maniera significativa mentre è molto cambiata la composizione e la presenza dei gruppi ebraici. Demograficamente polarizzata nei due grossi centri di Roma e Milano, ma anche variamente articolata sul territorio. Qui da noi gli ebrei non sono più rintracciabili solo fra gli iscritti alle comunità ebraiche (sono molti – nessuno sa quanti veramente – gli ebrei che tali si sentono ma che sfuggono ai censimenti), e il grado di adesione alle pratiche religiose e alle attività culturali organizzate in ambito ebraico è incommensurabilmente superore a quel che accadeva 50-60 anni fa. A Roma ci sono mi pare 16 o 17 sinagoghe (ce n’erano tre), a Milano non molte di meno (ce n’erano due) e fra comunità ortodosse, riformate, Chabad (per non parlare delle esperienze del tutto nuove che si registrano nel sud Italia) a me pare che la prospettiva di scomparire sia piuttosto lontana. Detto questo, proprio l’esperienza italiana dimostra storicamente che non è una questione di numeri. Qui da noi non siamo mai stati molto numerosi, ma questo non ha impedito all’ebraismo italiano di essere vero e proprio punto di riferimento per l’intero mondo ebraico per molti secoli. Più in generale, per ritornare al grido d’allarme lanciato dal rabbinato (per la verità lì convenuto per esprimere con un atto chiaramente politico un forte segnale di solidarietà all’ebraismo ungherese che a 70 anni dalle deportazioni è ancora oggi sotto grave attacco), a me sembra che mettere nella stessa insalata antisemitismo, indebolimento delle pratiche religiose e matrimoni misti costituisca un ingiustificato azzardo. Sono tre questioni importanti che meritano di essere valutate, fra l’altro senza limitarsi a uno sguardo solo ebraico (la secolarizzazione è un fenomeno globale, che peraltro mostra segnali non univoci visto il generalizzato ritorno di centralità che si registra nella devozione religiosa). In ogni caso, ho avuto modo di leggere solo le considerazioni e la cronaca fornita dal giornalista del Foglio. Se devo basarmi su di esse, non posso che trovare insopportabile che un ebreo (ancorché rabbino o comunque dirigente di comunità ebraica) si permetta di paragonare l’assimilazione a Hitler. L’assimilazione è infatti un fenomeno sociale che dipende da cause personali tanto quanto da cause sociali, che si contrasta a mio parere solo con iniziative intelligenti e solidali, con le buone pratiche. Insomma, suggerirei meno insulti e più Ghemilùt hassadìm (azioni di misericordia).
Gadi Luzzatto Voghera, storico
(11 aprile 2014)