L’immagine dei gitani
Il piano di sterilizzazione forzata attuato in Svezia dal 1934 al 1974 ai danni dei gitani e di altri individui considerati “con difetti genetici”, ha suscitato sconcerto anche sulle pagine di Moked, in un contesto come quello ebraico da sempre impegnato e vigile sul tema delle discriminazioni su stranieri e minoranze.
Diverse del resto potrebbero essere le analogie storiche riscontrabili nel passato tra popolo Roma e popolo ebraico, dalla perdita del territorio d’origine che ne ha determinato l’esilio e la dispersione, entrambi furono etichettati come inner enemies dalle società circostanti, subendo persecuzioni ed espulsioni in tutto l’emisfero culminate poi tragicamente nello sterminio nazi-fascista, che non ha comunque alterato in seguito, specie verso i primi, un’onnipresente percezione collettiva di sospetto e indesiderabilità. Poco incide il colore politico, il grado d’istruzione o la posizione sociale, l’antipatia per i gitani è un sentimento condiviso da più parti, dando spazio a una mentalità che non di rado si traduce in vero e proprio odio razzista, costantemente alimentato da luoghi comuni e pregiudizi che si sono susseguiti intatti per secoli, sovente mai del tutto comprovati e ingiustificati, come il mito dei “gitani rapitori di bambini”.
Viceversa si potrebbe affermare, senza fini discriminatori, che sovente la diffidenza è reciproca, neanche i gitani che incontriamo per le strade delle nostre città dimostrano normalmente intenti amichevoli, una grande affabilità o simpatia – intesa come sim-pathos – verso noi gadjé (i non-gitani), e il più delle volte sono loro stessi che difficilmente tentano di rendere migliore la loro “immagine” ai nostri occhi. Nonostante qualche sporadico studio o rare testimonianze dirette ed indirette, da cui è stato possibile trarne un timido profilo storico-antropologico – come la supposta provenienza dal Sindh e dal Rajasthan, nel Nord-Ovest del subcontinente indiano, l’arrivo in Europa attraverso la Persia e l’Armenia, e poi i Balcani; l’appartenenza del Romanì alle lingue indoarie; e qualche lineamento sull’organizzazione e la struttura familiare e la divisione etnica dei gruppi – il mondo dei Sinti e dei Rom, retto da una tradizione esclusivamente orale e tramandata, rimane per noi sostanzialmente velato, ignoto e inaccessibile, e fondamentalmente incomprensibile. Qualcuno ha rimarcato come tra gli Ostjuden prima della Shoah si potessero riscontrare alcune caratteristiche comparabili con quelle dei gitani di allora e di adesso, come un’esistenza precaria costantemente ai margini e talvolta ai limiti della legalità. Veridicità o intenti revisionistici, un punto di contatto tra i due popoli non è mancato nonostante un’intrinseca discordanza culturale, a cominciare dal repertorio della tradizione klezmer, influenzato da melodie ottomane, balcaniche e dalla musica lăutărească retaggio proprio dei Roma. La musica e la danza sono state le arti predilette dai gitani, difatti la loro prima comparsa leggendaria nella storia li presenta proprio come suonatori di liuto, “Luri” alla corte dello Shià Bahram V nell’Impero Sasanide. Ma in generale i gitani hanno esercitato disparati mestieri (da cui poi sono derivate le denominazioni etniche) modellati in rapporto al loro passaggio attraverso le epoche e i luoghi, e in funzione degli usi e dei costumi delle diverse società e delle genti. Furono soprattutto fabbri – una leggenda raccontava che erano condannati a vagare perché avevano fabbricato i chiodi per la crocefissione di Gesù di Nazareth – eppoi allevatori e commercianti di cavalli, cercatori d’oro, artigiani del legno e del vimini, ammaestratori di orsi, incantatori di ratti, burattinai, acrobati, prestigiatori, toreri, e in tempi recenti giostrai e ambulanti. Non disprezzando al contempo la pratica della chiromanzia e la mendicità, o in casi più estremi, il furto, sebbene non sia la regola. La nostra società industriale basata sul capitale e sul consumo certo non è più compatibile con i mestieri citati: forse i gitani non sono riusciti a trovare una nuova collocazione nel mondo contemporaneo, forse il loro rappresenta figuratamente un tentativo di resistenza e di non omologarsi ad esso. Potremmo allora guardare i gitani, riprendendo l’antinomia pirandelliana tra forma e vita, e convalidare che ai nostri occhi prevalga forse la seconda istanza, anche se realisticamente non è proprio così visto che i gitani aderiscono a una “forma” ugualmente complessa e ritualistica, strutturata su infrangibili opposizioni e dicotomie. Come per tutti i “diversi”, ad una immagine negativa dei gitani, se ne affianca dunque una romantica ed esotica che ne è complementare, e ugualmente stereotipata e stilizzata. Bisognerebbe allora fuoriuscire dalle usuali categorie interpretative, pensarle di nuove, e prendere finalmente coscienza che il mondo e chi vi abita è tanto dissimile da noi, ed è proprio da questa divergenza che acquista così significato.
Francesco Moises Bassano, studente
(11 aprile 2014)