Stranieri foste in terra d’Egitto

somekhIl problema dell’immigrazione clandestina riguarda ormai non solo l’Italia, ma tutti i Paesi del Mediterraneo. Profughi dal Sudan e dall’Eritrea considerano di fatto Israele un avamposto della civiltà. La lingua ebraica, con la sua duttilità, ha già elaborato un termine per definire questo tipo di immigrati: mistannenim, letteralmente “infiltrati”, da sinnùn, “filtro” (Shabbat 134a). Anche in Israele, come dappertutto, le forze politiche sono divise sul modo di affrontare il problema. La sinistra reclama per lo più il diritto degli immigrati all’accoglienza in nome del fatto che non si tratta di criminali da respingere, mentre la destra mette l’accento sul pericolo sociale, economico e culturale che il fenomeno implicherebbe per la società, almeno sul medio periodo. La novità consiste nel fatto che per la prima volta ci si interroga seriamente su “cosa l’ebraismo pensi” dell’immigrazione clandestina. Peraltro, come scriveva quest’inverno una giornalista, “sappiate che ogni volta che ricevete una sola risposta netta a una domanda del genere siete vittima di un bluff. Se ciò è vero in generale, tanto più su un argomento così complesso e sensibile: quando cioè si parla di persone costrette ad abbandonare la loro terra che cercano asilo presso di noi” (Yokhi Brandes in Israel ha-shavùa, 27 dicembre 2013, p. 14). La Torah prescrive: “Non riconsegnare uno schiavo al suo padrone dopo che ha trovato riparo presso di te dal suo padrone. Risiederà con te in mezzo a te nel luogo che si sarà scelto in una delle tue città dove si trova bene: non opprimerlo!” (Deut. 23, 16-17). Nella Bibbia ebraica si parla di Shim’ì figlio di Gherà. Era questi un parente del re Saul: allorché David fuggiva dopo che suo figlio Avshalom gli si era ribellato, Shim’ì non si peritò di insultarlo e di lanciargli pietre. Ma David lo risparmiò (2Sam. 16, 5-13). Comprese che vendicarsi contro i ribelli non avrebbe giovato alla stabilità del suo regno. Il giuramento di clemenza fatto dal padre non sarebbe stato invece vincolante per suo figlio Shelomoh. E così in punto di morte David comandò a quest’ultimo: “Dal momento che sei un uomo intelligente, saprai cosa fargli (a Shim’ì) in modo che la sua vecchiaia scenda nello Sheol (sede dei morti) attraverso il sangue” (1Re 2, 8-9). Shelomoh, che intelligente era effettivamente, ordinò a sua volta a Shim’ì di non lasciare Yerushalaim, pena la sua vita. Shim’ì accolse l’avvertimento del nuovo re con molta serietà, se non fosse nel frattempo accaduto qualcosa che lo spinse ad infrangere gli “arresti domiciliari” cui era stato di fatto condannato. Gli erano fuggiti due schiavi a Gat, ed egli pretese dalle autorità filistee la loro riconsegna. Shim’ì rincasò dunque a Yerushalaim tutto felice con gli schiavi recuperati, ma fu ucciso per ordine del re quello stesso giorno (1Re 2, 36-46). Shim’ì era dunque pronto a sacrificare la propria vita pur di riavere indietro i suoi schiavi. Era questo certamente il punto di vista dominante nell’antico Oriente. Ma non quello della Torah. Le regole sociali sono qui scritte in modo molto chiaro: “Se il tuo fratello impoverirà… lo dovrai sostenere: che sia straniero o residente, una volta che viva con te” (Lev. 25,35). E’ evidente dalle ultime parole che il termine “fratello” iniziale deve avere un’accezione universale. D’altro lato, è noto che i Maestri del Talmud limitano l’obbligo di assistere gli altri a quelle situazioni che non vadano a detrimento di noi stessi: “La vita di tuo fratello è con te’ (Lev. 25,36): significa che la tua vita precede quella di tuo fratello” (Bavà Metzi’à 62); “Quando presterai a membri del mio popolo, al povero che è con te’ (Es. 22,24): i poveri della tua città hanno la precedenza su quelli di un’altra città” (Bavà Metzi’à 71). In pratica abbiamo l’obbligo di aiutare i rifugiati di altri popoli nella misura in cui ciò non contrasti con i nostri interessi vitali. Non possiamo respingere chi varca i nostri confini alla ricerca di un’integrazione nel nostro mondo del lavoro, ma d’altronde non possiamo neppure pensare di farci carico di una quantità illimitata di esterni senza mettere a repentaglio il nostro già precario sistema economico. Il malessere di chi arriva da fuori è un punto sensibile della coscienza morale ebraica, sollecitati come siamo dalla nostra stessa esperienza storica: “Non opprimere lo straniero: voi infatti conoscete l’animo dello straniero, perché foste stranieri in terra d’Egitto” (Es. 23,9). È questo uno dei moniti più attuali della festa di Pesach, in cui commemoriamo l’uscita dalla schiavitù. Se da un lato l’etica biblica ci sollecita ad accogliere gli stranieri a nostra volta, dall’altro sappiamo però che il livello più alto di Tzedaqah nei confronti dei poveri e derelitti consiste nel fornire loro la possibilità di mantenersi stabilmente con le proprie forze. Le popolazioni più sviluppate devono provvedere a contenere il gap rispetto a quelle meno fortunate, fornendo loro non solo aiuti economici, ma anche i mezzi per la diffusione della cultura, che la tecnologia più avanzata mette a disposizione a basso costo in abbondanza. Piuttosto che accogliere profughi a dismisura in Occidente, rompendo gli equilibri della popolazione mondiale, sarebbe meglio aiutare il prossimo a rifarsi una vita nelle sue terre (“D. ha udito la voce del fanciullo – Ismaele – lì dove si trova”: Gen. 21,17). Fatti gravissimi, come quelli accaduti a Lampedusa lo scorso autunno, richiamano le nostre coscienze sul divieto di stare inerti dinanzi al sangue del nostro prossimo (Lev. 19, 16). Molti precetti della Torah sono ispirati ad analogo principio, come quello di predisporre un parapetto al tetto affinché nessuno metta in pericolo la propria vita (Deut. 22,8). Nel nostro caso tocca alla comunità internazionale muoversi per evitare che si ripetano queste immani tragedie, le cui vere cause sono da ricercarsi probabilmente in tempi e luoghi molto lontani da quello che è stato l’effettivo teatro di un così drammatico e raccapricciante ultimo atto. Deve seguire dunque un impegno condiviso da parte di tutti coloro che ne hanno la facoltà materiale di aiutare le popolazioni più deboli a trovare dignità e benessere, prima che divengano preda di oscure forze del Male nel tentativo, di per sé assolutamente legittimo, di perseguire un miglioramento delle proprie condizioni di vita.

Rav Alberto Moshe Somekh, da Pagine Ebraiche aprile 2014

(13 aprile 2014)