Le urla e gli strepitii

claudiovercelliLe esternazioni dei giorni scorsi di Beppe Grillo su Auschwitz, la loggia massonica Propaganda due e Primo Levi, con accostamenti, sovrapposizioni e assimilazioni di vario assortimento, tutte fuori luogo se non deliberatamente offensive, sono solo l’ennesimo ma non ultimo passaggio di una strategia della banalizzazione che sta al cuore del populismo politico di cui quel personaggio mediatico è depositario. Cercare in lui, nel suo entourage, in una parte (non però di certo in tutta) dell’elettorato che lo segue fidelizzandosi, il segno della negazione del passato sarebbe impresa vana poiché forzata. Grillo non nega, Grillo banalizza e, soprattutto, trivializza. Questa è la sua vera forza, la chiave su cui costruisce le sue fortune elettorali e di show, facendosi forte dei suoi bagni di folla.

Non solo perché profana – letteralmente – la sacralità morale che fa da triste ma necessario alone ai morti di una tragedia immane, non unicamente ebraica ma anche e soprattutto europea, senza la quale la stessa centralità di quella vicenda nella formulazione di una nuove coscienza collettiva sarebbe vanificata, ma anche e soprattutto perché intercetta e sobilla l’insofferenza che è andata stratificandosi, un po’ ovunque, rispetto al lascito di quella storia. Benché il rifarsi ai paradigmi, diffusi e quindi consolidati, dell’antisemitismo costituisca ancora una tentazione impedita dalle circostanze politiche, da un galateo morale che vieta il ricorso ad essi, almeno a viva voce, rimane il fatto che il riuscire a erodere la rilevanza etica della memoria della Shoah è una tentazione troppo forte per chi ha bisogno di alzare pressoché ogni giorno l’asticella della polemica per concentrare su di sé l’attenzione dei mezzi di comunicazione. Ragion per cui è facile prevedere che chi ha già tentato di scardinare il consenso condiviso, maturato peraltro tra infinite difficoltà, sul giudizio riguardo a quelle vicende, prosegua ancora sulla strada delle provocazione. Grillo non delira quando fa certe affermazioni. Non ignora la storia di Auschwitz. Semmai ne riconosce la decisiva importanza nella cultura dei nostri giorni, ambendo ad “annettersela”, ossia a ricondurla ad una serie di significati, di linguaggi, di “valori” che possa egli stesso gestire pro domo sua, per il suo proselitismo. Alla ricerca di una produttività politica dell’evento che, per essere piegato ad un proficuo effetto di funzionalità, richiede di venire sottratto alle concrete dinamiche storiche che lo accompagnano.

Si tratta della logica dell’iperbole, congruente con il modo di porsi rispetto ad una società affaticata e a un sistema di poteri disegnato come altrimenti non modificabile. Più le si spara grosse, maggiore è l’offesa, migliori sono le possibilità di un qualche ritorno. È un percorso, per alcuni aspetti, non troppo diverso da quello che ha caratterizzato le improprie assimilazioni (che nulla hanno a che fare, mai ci stancheremo di dirlo, con le comparazioni legittime e i doverosi raffronti tra tragedie storiche diverse) che, vuoi con ingenuità vuoi per cosciente calcolo, hanno caratterizzato alcune delle iniziative che in questi anni sono confluite, a volte anche fisicamente, ad Auschwitz medesimo. Recarsi in quei luoghi per celebrare i morti per mafia, così come in più di un’occasione è capitato, mettendo tutto (e tutti) nello stesso recipiente, mischiandolo e servendolo poi come una sorta di minestrone buono per ogni piatto e per qualsiasi palato, costituisce, prima ancora che una torsione della storia, una voluta indisponibilità a cogliere la specificità di ogni morte, da quella dell’indifeso deportato a quella del magistrato che lotta contro la criminalità. Non si fa un buon servizio all’uno come all’altro, in altre parole, quando si accostano e si accomunano vicende il cui unico elemento comune è la morte. Soprattutto, non si fanno passi in avanti nella comprensione della criminalità di Stato (il nazismo e i fascismi) e della criminalità organizzata (le mafie e i terrorismi); men che meno ci si dota di strumenti per contrastarne la diffusione o la duplicazione storica. Semmai li si indebolisce, dicendo di volere ottenere l’effetto opposto.

Il comico-politico parte da questa premessa, che gli è ben nota, per lanciare i suoi strali contro l’universo mondo, colonizzando – con il suo linguaggio nel medesimo tempo enfatico, parossistico, paradossale, urlato ed ossessivo – parole, idee e un “comune sentire” sospeso tra rabbia, apocalitticismo ma anche sentimentalismo di massa. È un naturale terreno di consolidamento della sua proposta politica, quella fondata non su un progetto definito, che gli manca completamente – non intendendo porsi su questo piano di complessa elaborazione – bensì sul rigetto sistematico del passato. Dove tutto, e ancora una volta tutti, sono accomunati da un comune giudizio, che si fa pregiudizio. Il «nuovo» che così avanza, tra due ali di folla festante e giubilante, presentandosi come «democrazia diretta», è in realtà la negazione del principio democratico stesso. La disintegrazione della mediazione è la premessa per costruire un circuito tra folla e capo dove il secondo, dicendo di cogliere “naturalmente” i bisogni della prima, si sostituisce ad essa nel momento stesso in cui dice di realizzarne la volontà. Grillo è consapevole di accogliere quella parte di senso comune, piuttosto diffusa ancorché spesso celata come un camaleonte nelle pieghe del quotidiano, che imputa agli «ebrei» la vocazione a manipolare e ad egemonizzare il dolore, per usarlo come arma di ricatto. In questo, sa di potere accomunare la vecchia destra radicale e una parte della sinistra estrema, ovvero quello che dell’una e dell’altra rimangono. Ma, non di meno, anche e soprattutto di raccogliere le insofferenze diffuse tra una parte della popolazione. Insofferenze in sé confuse, cioè alla ricerca di parole per esprimersi come linguaggio condiviso, quindi non necessariamente antiebraiche ma senz’altro disposte a cercare, non importa a quale prezzo, un capro espiatorio. Dinamica non troppo nuova, ad onore del vero, ma che si adatta, di volta in volta, alle esigenze mutevoli del momento, rivelando un elevato grado di aderenza alle angosce del presente.

Da ciò, quindi, la falsa iconoclastia che sta dietro alle urla e agli strepitii di un personaggio da palco che ha introiettato la regola primaria per cui la politica, spogliata di ogni suo ruolo decisionale ed operativo, è essenzialmente spettacolo, manifestazione effimera, invito a ribaltare, in cuore proprio, il mondo intero per poi ritornare a casa compiaciuti ma anche privi di un futuro che non sia quello dettato dall’eterna ripetizione del risentimento. Ed allora, se da un lato c’è la sfida di un negazionismo che, attraverso l’habitat del web e l’ossessione per il conflitto israelo-palestinese, scopre possibilità di espansione e di proselitismo fino a due decenni fa impensabili, a ciò si aggiunge, dall’altro lato, l’orizzonte sempre più vicino di una banalizzazione e volgarizzazione (quest’ultima in tutti i sensi, sia verbale che mentale) della storia come strumento per controllare il presente.

Il comico genovese non è peraltro il primo a sintonizzarsi su questa lunghezza d’onda. Ma può dire di avere fatto tesoro delle esperienze precedenti, con le quali è assai più in sintonia di quanto non sia disposto a riconoscere e, quindi, a concedere. L’appropriazione, stravolgendone i significati, della memoria di Auschwitz e delle parole di Primo Levi sta dentro questa logica, in sé lineare e utilitaristica. Per poterlo fare, distruggendo la ricchezza di vita che propria quella storia di morti ci ha consegnato, laddove al silenzio della cenere si allea il verbo dell’esistenza consapevole, deve trovare degli «avversari», le leadership comunitarie (declassate a «porta-voci» di qualcosa o qualcuno), di un ebraismo neanche troppo sottilmente dipinto come autisticamente abbarbicato sulla posizione della privatizzazione della sofferenza. E contro il quale, già da adesso, invita ad una diffusa “insofferenza”, nella logica che, in fondo, a conti fatti, di un’altra «casta» si tratterebbe. Basta fare una veloce rassegna delle reazioni nel mondo virtuale, dove al ritualistico e peloso riconoscimento, obtorto collo, che «Beppe» forse questa volta ha alzato un po’ troppo il tono, da subito fa da corredo la contumelia cortese contro gli «ebrei che non capiscono» e che non avrebbero «nulla di cui offendersi» (eccetera, eccetera). È triste il riscontrare come poco o nulla di quel che è avvenuto, non tanti anni fa ma in tempi recenti, abbia lasciato un qualche segno affermativo, ossia una capacità di analisi critica in un Paese, l’Italia, dove gli anticorpi difettano pressoché da sempre, rendendolo terra di spregiudicate razzie politiche.

Claudio Vercelli

(20 aprile 2014)