kedoshim…

In apertura di questa Parashà, che ci invita ad essere “kedoshìm”, consacrati, dedicati a D.o attraverso un comportamento di consapevolezza e di distinzione, Rashì rileva che questa parte della Torà è stata data “be-haqhèl”, ossia in assemblea plenaria pubblica. La base testuale per quest’affermazione è chiara: la Parashà si apre dichiaratamente con l’espressione “Parla a tutta la congrega dei figli d’Israele e di’ loro……”; ma ciò che più importa non è qui la base testuale, bensì ciò che le parole di Rashì vogliono insegnarci. In altri termini, perché è così importante sapere che questi precetti sono stati dati in assemblea plenaria? Cambierebbe qualcosa, se invece fossero stati insegnati da Mosè a piccoli gruppi, o in incontri singoli?
La Kedushà che dobbiamo realizzare, il portare la nostra vita quotidiana ad un livello qualitativo superiore sì da portare il divino nel quotidiano, è possibile solo si riesce ad eliminare da sé ogni impurità, ad astenersi da ogni cosa vietata. Ciò è relativamente facile da ottenere quando ci si isola dal mondo: dietro portoni chiusi, in una stanza isolata, non è difficile evitare “contaminazioni” esterne. Tuttavia non è questa la normale condizione umana: l’essere umano è creato per vivere in mezzo alla società. Vivere in maniera superiore al di fuori della società non è impossibile, perché comunque “ki kadòsh anì”, “Io sono santo”: la nostra santità deriva dall’essere figli di Ha-Kadòsh Barùkh Hu’. Invece ciò che qualifica il nostro rimanere “kedoshìm” è proprio il fatto che bisogna esserlo “be-haqhèl”, in mezzo ed insieme agli altri.
D’altro canto, si può anche rovesciare il discorso: ciò che impedisce la “kedushà” è un eccessivo individualismo. Solo all’interno di una collettività, solo se si riesce a considerarsi parte di un insieme, se ci si sente insieme agli altri ed al pari degli altri, si riesce ad elevarci a D.o.

Elia Richetti, rabbino

(24 aprile 2014)