Differenze tra vanità e vuoto

salmonUn paio di settimane fa ho avuto occasione di rileggere il Kohelet. Prima ho preso la traduzione di Rav Dario Disegni, col testo ebraico a fronte (su cui, ahimè, ho competenze quasi nulle); poi, però, mi è tornato in mente un librino del 1970, edizione Einaudi (molto in auge negli anni ’80), con la traduzione di Guido Ceronetti. Mi è bastato fermarmi a comparare i primi due versetti per restare rapita dal dilemma: il termine ebraico “hàvel” è reso da Disegni come “vanità” e da Ceronetti come “vuoto” (o anche “infinito niente”). Da giorni continuo a pensare che vanità e vuoto siano due concetti profondamente diversi, sottilmente antitetici. La vanità (anche nello spirito dell’Ecclesiaste) mi sembra paradossalmente nostalgica, non vuota, ma piena di malinconia; la vanità riflette la presenza della mancanza. Il vuoto, invece, lo sento come un concetto autoritario e unilaterale, quasi aggressivo, impermeabile al sentimento, al rimpianto: il vuoto, mi vien da pensare, è un concetto esterno all’ebraismo. Chissà, ma le traduzioni, in buona sostanza, sono necessariamente commenti e un lettore dovrebbe chiedersi quanto possa fidarsi dei.. commentatori..

Laura Salmon, slavista

(25 aprile 2014)