L’importanza delle parole
Negli ultimi giorni – segnati per l’Italia ebraica dalle consuete (inaccettabili) contestazioni ai simboli della Brigata ebraica – sono accaduti due fatti eclatanti, o forse no. Nel primo caso Recep Tayip Erdogan, potente Primo Ministro turco, ha ricordato le sofferenze dei discendenti degli armeni morti all’inizio del secolo, pur senza riconoscere alcuna responsabilità delle autorità turche dell’epoca; successivamente Abu Mazen, presidente dell’Autorità nazionale palestinese, ha affermato che la Shoah è il più grande crimine contro l’umanità perpetrato nella storia.
Curiosamente, entrambe le notizie hanno suscitato reazioni analoghe e opposte: chi ha magnificato i due eventi, bollandoli come storici (anche se il concetto espresso da Erdogan é certamente parziale e insufficiente), chi la ha derubricati a furbizie politiche pretestuose. Erdogan si sarebbe mosso in vista delle prossime elezioni presidenziali, con l’obiettivo di acquisire credito internazionale, mentre Abu Mazen si sarebbe servito della Shoah per obliare nella pubblica opinione la recente alleanza con Hamas.
Ora, queste letture sono indubbiamente vere. Un’affermazione di un capo di Stato è sempre motivata da interessi contingenti, tattici, strumentali, quanto meno nella scelta dei tempi. Tanto più quando si compiono dei gesti slegati dalla cronaca, vincolati alla memoria storica e all’identità nazionale. Ma la domanda da farsi è: pur con tutti i dubbi e i distinguo, è un bene che queste frasi siano state effettivamente pronunciate? Io penso di sì. Saranno smentite dalle scelte e dalle affermazioni future? Abu Mazen si confermerà incapace di fare la pace, biforcuto e ambiguo? Erdogan un tiranno? Può essere. Chi vivrà vedrà. Ma è comunque un bene che queste prese di posizione ci siano state. Una parola giusta può creare echi inimmaginabili anche per chi l’ha pronunciata.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas twitter @tobiazevi
(29 aprile 2014)