Yom HaZikaron
Sono le 10,55. Fra qualche minuto ci sarà la sirena di Yom HaZikaron. Quest’anno accenderemo 23,169 candele per i caduti nel corso della storia dello Stato d’Israele.
Sono appena tornata dal Moked a Milano Marittima: nella testa e nel cuore una festa di volti, di musiche, il teatro Yiddish, gli Anusim, le Megillot, donne che danzano la Torah; piccole e grandi comunità antiche, rinate, risorte ed effervescenti. Ma ho bisogno di respirare profondamente Israele. Di vedere gli occhi dei bambini vestiti di bianco, il loro sguardo assorto davanti alla fiamma accesa del ricordo, di vedere la bandiera d’Israele e ricordare, in silenzio, accanto a tanti altri, chi abbiamo perso nelle guerre, nelle esercitazioni, negli attentati, per sopportare insieme il lutto e lo sconforto. Mancano due minuti, il tempo per arrivare al prato della sala da pranzo del Kibbutz, di solito è lì che ci si raduna per la cerimonia. Il prato è vuoto. Non è possibile: dovrebbero essere già tutti pronti per il Mifkad. Manca un minuto. Corro verso il campo di calcio della scuola. Di sicuro i ragazzi saranno già pronti. Quando arrivo non c’è nessuno. Scorgo vicino a un Beit Yeladim, la casa dei bambini, Hatem e Yussuf, due operai arabi che stanno lavorando alla ristrutturazione dei tubi sotterranei. “Avete visto qualcuno? Dove sono i bambini?”. Hatem mi risponde: “Sono partiti per Hurfesh, il villaggio druso, faranno la cerimonia al cimitero del villaggio”. Hurfeish e Beit Jean sono i due villaggi della Galilea che hanno avuto il maggior numero di vittime di soldati di Zahal. Spesso, a Yom HaZikkaron, i kibbutzim della zona commemorano le vittime insieme alle famiglie druse. Li ringrazio, mi volto, tre passi e il suono della sirena mi avvolge e comincia e girarmi vorticosamente dentro insieme al sangue nelle vene, come la linfa che mi dà vita. Non c’è nessuno intorno. Come Sara, davanti al Mar Morto, sento l’impulso di girarmi, di vedere cosa succede dietro di me. Hatem e Yussuf sono fermi, anche loro. In piedi, in silenzio, lo sguardo assorto.
Un nodo alla gola in questo momento che unisce tutti. Un messaggio, un nuovo impulso a continuare a costruire perché abbiamo il dovere di andare avanti e sperare. Soprattutto per coloro che, come scrive il poeta Bialik, “con la loro morte, ci hanno comandato la vita!”.
Edna Angelica Calò Livne
(6 maggio 2014)