Yom HaAzmaut e osservanza
Yom HaAzmaut e osservanza non corrono su due binari paralleli. Yom Haazmaut e mondo ortodosso (per accontentare chi vuole attaccare un’etichetta a gruppi e persone a tutti i costi) possono, con grande stupore e meraviglia di molti, andare a braccetto. E procedere verso un cammino comune di ideali e valori. Sempre che Yom HaAzmaut si faccia durare un anno intero e non solo un giorno all’anno.
Yom HaAzmaut è il giorno in cui gli ebrei di Israele e della diaspora, festeggiano il proprio sionismo. Ecco, forse ci siamo. Forse il sionismo si può tingere di diverse tinte. La tinta comunemente riconosciuta è quella secondo la quale per 25 ore si sovraffollano i parchi di Israele con grigliate e barbecue, lanciando al massimo il volume di Ipod e radio.
Finiti i festeggiamenti però, tra queste stesse persone ci sono alcuni che, sedendosi al tavolo di trattative con i nemici del nostro popolo, antepongono desideri personali di gloria e strategie geopolitiche contingenti alla presente e futura sicurezza del proprio popolo. Regalando pezzi di terra di Israele a chi, ipoteticamente e in un futuro remoto, forse rinuncerà per qualche ora a sognare un mondo privo di presenza ebraica.
Sono nipote di una donna che, appena assunta la carica di presidentessa delle Donne ebree d’Italia, ricordò che aliyah significa salire. Perché Israele è la terra dove si va per salire, per migliorarsi spiritualmente, per seguire ancora meglio, grazie al fatto di trovarci nella nostra terra, i precetti della Torah. La sua carica durò meno di ventiquattr’ore. Si preferiva cantare canzoni popolari ebraiche piuttosto che pensare a come adoperarsi e faticare per garantire l’esistenza futura del nostro popolo.
Ho scelto come maestro un uomo che, indirizzandosi ai propri studenti diceva: ricordatevi che la difesa della nostra terra sta nelle vostre mani. Quando studiate Torah dotate Israele di uno scudo spirituale. Ma se non avete voglia di stare per 10 ore al giorno chinati su un Talmud o su uno Shulchan Aruch, indossate una divisa e andate a combattere . Perché il vostro sangue non è più prezioso di quello degli altri.
Un uomo che indirizzandosi ai soldati di Tzahal rimasti lesi a vita per ferite riportate in guerra, diceva di non essere d’accordo con il modo in cui li definivano. I nechei Tzahal, gli handicappati di Tzahal, non erano handicappati, ma privilegiati. E avrebbero dovuto essere chiamati mezuianei Tzahal, i migliori. Perché se un individuo è stato privato di un organo, di un arto o di una facoltà, significa che D-o l’ha dotato di altre doti speciali, per affrontare e superare le limitazioni fisiche con cui affronta ogni nuovo giorno.
Un uomo che stringeva la mano di quegli uomini feriti nell’anima pronunciando ‘grazie’, thank you, riservando loro uno sguardo di stima e mai di compassione.
Un uomo che, quando la politica parlava di dare terre in cambio di pace, si sgolava fino a perdere la voce, ricordando la sacralità di ogni centimetro della terra di Israele. E di ogni goccia di sangue dei nostri soldati, versata per rimettere in mano ebraica queste terre.
Se sionista significa uscire nei parchi a grigliare carne e hot dogs e vestirsi di bianco e blu per venticinque ore, non è questo che mi è stato insegnato.
Se sionista significa invece dare tutti se stessi, spiritualmente e materialmente, per la difesa e la crescita della terra dei nostri avi, io, ebrea italiana nipote di Alba Soliani Rabello e discepola del Rebbe di Lubavitch, non permetterò mai a nessuno di privarmi, in nome di etichette e tristi divisioni, di questo ideale.
Gheula Canarutto Nemni
(7 maggio 2014)