Il razzismo della porta accanto
Un paio di giorni fa ero nella sala d’attesa del Comune di Genova per fare dei documenti. Non c’era ressa, c’erano sedie per tutti e i numeri scorrevano veloci sul tabellone. A un certo punto, un ragazzo di colore accede allo sportello e la mia vicina di sedia, una giovane signora dall’aria mite, prorompe a voce alta in una sfuriata razzista contro i “negri” che hanno rovinato l’Italia e contro la polizia che non spara a vista “a quelli lì” (“… come farebbero in America”). Una donna più anziana interviene a darle man forte. Sopraffatta dallo sdegno, reagisco e vengo apostrofata da entrambe come “buonista ipocrita” che vive nei “quartieri alti”, che “di extra-comunitari non ne ha mai visto uno da vicino!”. Alzo la voce e dico che un extra-comunitario, in realtà, me lo sono sposato. Entrambe le donne scuotono la testa con beffarda complicità: “beh, allora è chiaro”, dice la giovane, “è una di loro!”. Tutt’attorno ci sono sudamericani, neri, asiatici, albanesi che ninnano bambini, manipolano telefonini ed esibiscono una sovrana indifferenza per queste tre signore bianche, indigene e a un passo dalla zuffa. La mia sola reazione è di nascondere il frontespizio del passaporto che tengo in mano, come mi vergognassi di condividere la mia “italianità” con quella “feccia di connazionali razziste”. Ma, dopo un paio di minuti di silenzio, la donna più giovane si gira e mi dice con disprezzo: “Ci viva lei nel centro storico! Col coprifuoco, con le siringhe per le scale e con la polizia che fa le retate alle quattro del mattino! Ci viva lei con i marocchini che ti fischiano dalla finestra persino se scendi a prendere il pane!” Mi assale una totale confusione: sento che la vergogna aumenta, ma è una vergogna diversa. Adesso mi vergogno della mia fortuna: di non essere nata con la pelle del colore sbagliato, di non essere cresciuta nel centro storico, di non essere stata al mondo quando − col mio solo cognome − era pericoloso vivere anche in un bel palazzo di un quartiere tranquillo. E immediatamente sento prorompere in me quell’umana, forse inevitabile meschinità che mi fa desiderare soltanto di tornarmene di corsa nelle mie torri d’avorio dove riesco a illudermi di essere una persona migliore.
Laura Salmon, slavista
(23 maggio 2014)