Definire l’antisionismo
Non è agevole argomentare sull’antisionismo cercando di evitare da subito un giudizio di valore su di esso. Il fatto stesso che porti il prefisso “anti” rivela esplicitamente la sua natura avversativa e, in immediato riflesso, la sua carica di secca opposizione a qualcosa così come a qualcuno. Rispetto a una definizione che non sia unicamente schiacciata sull’attualità politica, che rischia altrimenti di travolgerne tutti i significati possibili, l’antisionismo può essere ricondotto, nella sua essenzialità, a un ampio spettro di convinzioni e credenze che dall’opinione possono giungere al pregiudizio e, infine, alla giustificazione di un’azione di offesa nei confronti di cose e persone. Definizione sufficientemente generica ma necessaria, poiché incorpora al suo interno la storicità sia di ciò di cui dice di essere l’inverso, il sionismo per l’appunto, sia dei modi e delle ragioni con cui tale atteggiamento si è concretamente manifestato tra le persone, ossia con modalità, in luoghi e in tempi tra di loro diversi. Il fondamento comune, poiché irrevocabile, è l’affermazione che il movimento nazionale ebraico, e ciò che da esso è nei fatti derivato, a partire dallo Stato d’Israele, costituiscano qualcosa a cui contrapporsi poiché storicamente illegittimi o comunque privi di un reale motivo d’essere, tanto più se questo è morale o civile. Le ragioni di tale opposizione, che in molti casi si fa da subito manifesta e ossessiva avversione, possono mutare, costituendo così la variabile dipendente dell’argomentazione antisionista, quella che cambia a seconda di chi la esprime. Mentre è variabile indipendente il giudizio per cui il sionismo sia di per sé qualcosa da rifiutare a prescindere. Sull’intensità del rifiuto, per l’appunto, gli umori e gli atteggiamenti possono quindi differenziarsi. Non invece sulla sua necessità. Dopo di che, cosa implica il richiamo all’antisionismo? Se lo consideriamo come un atteggiamento che si sviluppa nel corso del tempo, quindi contestualizzandolo rispetto a circostanze diverse e a scenari storici differenziati, possiamo isolare alcuni temi di fondo. A volte sono separati, altre volte si ibridano tra di loro. Il primo rimanda al convincimento che gli ebrei non siano un popolo, ancorché disperso, e che in quanto tali non abbiano diritto ad avanzare rivendicazioni di ricomposizione nazionale. Si situa in questa vulgata parte di quel giudaismo assimilazionista che, soprattutto nell’Ottocento, aveva fatto proprie le istanze del liberalismo, soprattutto laddove quest’ultimo predicava la centralità dell’individuo e la necessità di superare le appartenenze di gruppo, “particolariste”, a favore di una cittadinanza basata su un legame fondato su valori repubblicani e costituzionali. Il secondo rinvia all’idea, originariamente diffusa anche in una parte delle comunità ebraiche, che i problemi degli ebrei (ma anche i progetti e le identità che li accompagnavano) non fossero affrontabili e risolvibili con il ricorso alla via nazionale autoctona. Il terzo tema, più strettamente religioso, può essere formulato come l’avversione nei confronti dell’autoredenzione. Il tempo attuale è e rimane quello della dispersione. Il sionismo sarebbe solo la nuova forma di un vecchio problema, il falso messianesimo, che da Gesù a oggi, passando per Shabbatai Zevi, produce illusioni e lesioni nel corpo stesso dell’ebraismo. Rientra in questo novero la manifestazione odierna più appariscente dell’antisionismo in campo ebraico, quella espressa dal movimento Neturei Karta, i cosiddetti “guardiani della città”, presenti a Gerusalemme, negli Stati Uniti, in Belgio, in Gran Bretagna e in Austria. Si tratta di una costola scissionista dell’Agudat Israel, nata nel 1938 all’interno del “vecchio yishuv”, tra discendenti dell’ebraismo ungherese e lituano, le cui famiglie erano salite in Eretz Israel più di un secolo prima. Al di là dei rigidi convincimenti che li inducono a giudicare il sionismo come una perversione e un tradimento del giudaismo, il fulcro delle loro posizioni si legittima sulla base sia del rifiuto della separazione tra religione e politica sia con l’avversione contro gli istituti e gli organismi secolarizzati dell’ebraismo così come dello stesso Stato d’Israele. La mediazione istituzionale, che ogni moderna organizzazione politica non può non mettere in atto per raccogliere e rappresentare la varietà umana, insieme alle differenze sociali, culturali e spirituali, sono da essi rifiutate laddove ritengano che possano pregiudicare il rimando ad una “purezza” originaria e a dei confini identitari molto accentuati. La forte mediatizzazione di cui questo gruppo ha goduto, per l’apparente singolarità e l’eccentricità delle sue posizioni, ne ha amplificato l’impatto sul piano dell’immaginario collettivo. Tuttavia, che a essi vada conferita la palma di coloro che hanno raccolto l’opposizione religiosa al sionismo è un errore concettuale ma anche storico. Le vicende dell’antisionismo su base religiosa sono assai più complesse, variegate e articolate, situandosi in particolare tra il 1860 e il 1948, prima della nascita dello Stato degli ebrei. Il quarto movente è quello che indica in Israele una realizzazione storica che crea più problemi di quanti ne possa (e ne voglia) risolvere. Un atteggiamento, questo, che si ricollega a una visione per così dire falsamente “pragmatica”, dove la questione, altrimenti basilare nella storia dell’Ottocento e del Novecento, delle identità politiche e sociali di gruppo, viene ricondotta ad una sorta di prontuario di risposte usa e getta. Dal riscontro della conflittualità con le comunità arabe si passò, infatti, ad affermare che la via nazionale era di per sé illusoria e foriera di implicazioni di cui l’ebraismo non avrebbe dovuto farsi in realtà carico. Questo atteggiamento trovò un buon seguito in una parte dell’intellettualità ebraica della Diaspora, tra gli anni Quaranta e Sessanta. Un quinto elemento, assecondando un crescendo che una volta innescatosi fatica a fermarsi, è quello per cui il sionismo costituisce invece una forma particolarmente virulenta di razzismo. In questo caso, quasi sempre subentra l’equazione, tanto bislacca e offensiva quanto immediata, tra sionismo e nazismo, come se fossero l’uno sinonimo dell’altro. L’accusa, mossa a partire da tale premessa, è che il sionismo sia l’ideologia del suprematismo ebraico, ovvero la concezione della superiorità assoluta, sul piano razziale, degli ebrei, da essi stessi sapientemente coltivata ai danni del mondo intero. In questo genere di accezione si fa perno sull’interpretazione di Israele come Stato etnico, corruzione del principio dell’identità nazionale in quanto espressione del moderno diritto pubblico. È interessante notare come in questo caso a rivolgere i propri strali polemici siano sia coloro che, a vario titolo, dichiarano la loro appartenenza alla sinistra, sia quanti, dalla destra radicale, rivelano spesso di nutrire simpatie nei confronti del nazismo. All’apparente contraddittorietà di tale atteggiamento si può ricollegare il fatto che i neonazisti coltivano un’idea assolutoria delle propria ideologia, depurandola di tutti gli aspetti più deteriori o, al limite, giustificandone la loro necessità storica. A essere “cattivi”, in buona sostanza, non erano i carnefici bensì le vittime. Segnatamente, è questo l’imprinting dell’hitlerismo, che conferisce agli offesi la responsabilità dell’offesa stessa. Nel caso della sinistra, invece, come ha rilevato efficacemente Pierre-André Taguieff, l’antisionismo si presenta in quanto forma bislacca ed esacerbata di falso antirazzismo. A destra come a sinistra opera il medesimo cliché, quello che ribalta sugli accusati, con un vero e proprio gioco di proiezioni mentali, le proprie fantasie deliranti. Giunti a questo punto della scala d’intensità sopravviene definitivamente il pregiudizio antisemita. Israele, infatti, in quanto prodotto mefitico del sionismo, è visto come una sorta di “ebreo collettivo”, sul quale scaricare le colpe attribuite agli ebrei in quanto popolo o, eventualmente, come individui. Gli effetti di caricaturalità, facilmente rilevabili da parte di qualsiasi occhio od orecchio ragionevole, sono invece dei rafforzativi nella veicolazione e nella diffusione, a tratti virale, dei paradigmi antisionisti. Non è un caso che soprattutto sul web, vera miniera di opportunità per chi voglia esercitarsi nella diffusione del pregiudizio, abbondino i simbolismi che evocano l’intero armamentario antisemita, a partire dall’accusa del sangue, ovvero di “nutrirsi”, figurativamente o addirittura letteralmente, del sangue dei non ebrei. Così è infatti rappresentata la politica israeliana nei confronti dei palestinesi, soprattutto nelle diffusissime vignette che usano gli stessi stilemi in voga ai tempi del nazismo. Da questo punto di vista, al di là degli aggiustamenti grafici di circostanza, poco o nulla è cambiato rispetto al passato. Non è infatti un caso che in campo arabo-musulmano l’intera congerie di convincimenti che hanno alimentato storicamente l’antigiudaismo prima e l’antisemitismo poi sia da certuni ripresa in toto, dando corpo a un vero e proprio pregiudizio strutturale contro gli ebrei. In età contemporanea, al di là della stessa interpretazione in chiave antiebraica del Corano (come nel caso della Sura due, detta “La vacca”, ai versetti 75-105), peraltro ripresa e amplificata negli ultimi decenni dai movimenti di mobilitazione islamista, l’archivio antisemita, ossia l’immaginario pregiudizioso che in Europa aveva avuto ampia diffusione, è stato acquisito e adattato in molte realtà. Con effetti invero non sempre omogenei e, quindi, prevedibili aprioristicamente. La funzionalità e l’efficacia di una polemica non più religiosa ma esistenziale tout court è quella che le deriva dal costituire una delle colonne portanti dei simbolismi che attraversano il conflitto israelo-palestinese. L’antisionismo, in tale circostanza, del pari all’antisemitismo, assume i caratteri e la natura di posizione identitaria, non contrattabile in nessuno dei suoi aspetti. Chi ne riveste i panni ritiene di non potere derogare in alcun modo da essa, pena la minaccia verso la sua integrità psicofisica. Le ragioni individuali e le dinamiche di gruppo all’opera in questo caso sono per più aspetti per l’appunto omologhe a quelle dell’antisemitismo, dei cui temi di fondo sono di fatto un’attualizzazione. E per l’appunto la fantasia paranoide del sionismo come di un complesso unitario di interessi e di soggetti, tra di loro uniti dall’obiettivo della congiura, alimenta un senso di oppressione che potrà essere superato solo con la distruzione di ciò che viene tematizzato come una minaccia intollerabile.
Claudio Vercelli
(25 maggio 2014)