Identità: Mordecai Menahem Kaplan

kaplanNel 1958 l’allora Primo ministro dello Stato di Israele, David Ben Gurion si è trovato a gestire il fatto che la nozione stessa di identità ebraica era diventata in Israele oggetto di una legislazione che avrebbe avuto implicazioni pratiche cruciali. A cinquanta “Saggi di Israele” Ben Gurion pose la domanda divenuta il titolo del lavoro del professor Eliezer Ben Rafael, che in un e-book intitolato “Cosa significa essere ebreo?” – scaricabile dai siti www.proedieditore.it e www.hansjonas.it – ha messo in luce per la prima volta in Italia quella discussione sistematica sull’identità ebraica. Ogni domenica, sul nostro notiziario quotidiano e sul portale www.moked.it, troverete le loro risposte. Oggi è la volta di Mordecai Menahem Kaplan (1881-1983). Nato in Lituania, a nove anni emigra negli Stati Uniti con i genitori. Riceve un’educazione ortodossa ma è attratto dagli approcci non ortodossi. Nel 1902 è ordinato rabbino dal Jewish Theological Seminary (JTS). Nel 1909 è il primo preside della nuova scuola per insegnanti, il Teachers Institute, del JTS. Più tardi fonda una congregazione di cui è rabbino dal 1917 al 1922. Crea anche la World Union for Progressive Judaism e, nel 1935, il periodico The Reconstructionist, esperienze base della corrente ricostruzionista nell’ebraismo americano, che vede nell’ebraismo una civiltà religiosa più che una religione. Sionista, Kaplan approva al contempo la permanenza dell’ebraismo in diaspora. Tra i suoi lavori figurano: Greater Judaism in the Making: a Study of the modern Evolution of Judaism (1960) e The Meaning and Purpose of Jewish Existence : a People in the Image of God (1964).

New York, 20 kislev 5719 (2 dicembre 1958)

Signor Primo ministro ieri, al mio ritorno dalla costa Ovest degli Stati Uniti, ho trovato la sua lettera con la quale mi chiede di esprimere il mio parere sull’iscrizione dei figli di matrimoni misti i cui genitori, il padre ebreo e la madre non ebrea, vogliono che sia registrato come ebreo. Per capire il fondo del problema, lo si deve abbordare nel quadro da cui proviene. Lei vi fa riferimento nel primo paragrafo della lettera, dicendo che si devono emanare direttive “corrispondenti alla tradizione accettata da tutti gli ambiti dell’ebraismo, religiosi e laici, di tutte le correnti e alle condizioni particolari di Israele in quanto Stato ebraico sovrano in cui deve essere garantita la libertà di coscienza e di religione, e in quanto centro di riunione degli esiliati”. La frase forma un sistema di coordinate (contestual frame of reference) che deve permettere di capire il problema. Tuttavia, leggendo più attentamente vi trovo un certo numero di contraddizioni. Eccone alcune:
1. L’ipotesi secondo la quale c’è una “tradizione accettata da tutti gli ambiti dell’ebraismo, religiosi e laici, di tutte le correnti” è senza fondamento, sul piano intellettuale come su quello del modo di vivere.
2. L’ipotesi secondo la quale in Israele “la libertà di coscienza e di religione” è garantita, è negata dal fatto che il governo ha accordato al Rabbinato il diritto di costringere tutti gli ebrei del paese a seguire le sue regole per le questioni di matrimonio e di eredità, ecc. E che lo Stato stesso è obbligato a tenere conto delle decisioni rabbiniche per sapere chi può essere riconosciuto ebreo. 3. L’ipotesi fondamentale secondo cui lo Stato di Israele è uno Stato ebraico è anch’essa dubbia. Come spiegherò, c’è infatti un’alternativa che non toglie niente al carattere ebraico né al valore ebraico dello sforzo in favore della fondazione di Israele.
Questi vizi non si trovano per caso nel sistema di coordinate del problema perché sono la conseguenza di uno stravolgimento nella vita dell’umanità in generale, risultato della formazione degli Stati moderni che hanno affrancato gli ebrei dalla schiavitù e li assimilano, e della rivoluzione intellettuale nell’atteggiamento verso tutte le tradizioni religiose. Nel frattempo, abbiamo dovuto affrontare altre disgrazie e altre persecuzioni che ci hanno impedito di adattarci normalmente al nuovo contesto materiale e spirituale. Non ci si deve perciò stupire se non abbiamo prestato sufficiente attenzione alle questioni fondamentali relative alla nostra esistenza, al nostro avvenire e in particolare alla nostra essenza in quanto unità sociale e allo “statuto” di questa unità. Non per niente il poeta Y. L. Gordon ha lamentato che non siamo un popolo ma un’orda. La verità è che siamo soltanto una comunità e una popolazione mescolata. Se il movimento sionista non fosse esistito, avremmo dimenticato di appartenere a un solo popolo e che i nostri avi erano una volta “l’unico popolo sulla terra” e noi non avremmo aspirato a diventare di nuovo un organismo sociale la cui realtà non può essere messa in dubbio. Partendo da lì, possiamo cercare di formulare un sistema di coordinate per capire il problema e trovare una soluzione adeguata.

1. È l’Agenzia ebraica che ha permesso la fondazione dello Stato di Israele in quanto Stato moderno. La sua modernità si riflette, in primo luogo, nel fatto stesso della sua formazione e poi nella natura della sua esistenza. Per quanto riguarda la sua formazione, lo Stato di Israele non ha tenuto conto dell’aspirazione tradizionale che consiste nell’attendere la venuta del Messia figlio di David e ha “affrettato la fine” nonostante gli avvertimenti della tradizione. Per quanto riguarda la natura della sua esistenza, lo Stato [attuale] è completamente diverso da quelli che lo hanno preceduto, all’epoca del primo e del secondo Tempio, sia sul piano della religione che su quello della “nazione” [leom]. È impossibile che la struttura e lo statuto120 della popolazione ebraica dei secoli che hanno preceduto la Rivoluzione francese possano essere applicati all’attuale ebraismo mondiale. Non abbiamo infatti ancora trovato la struttura e lo statuto che convengono alla nostra generazione, né in Terra di Israele, né in diaspora.

2. L’Agenzia ebraica ha dato al governo dello Stato di Israele il mandato di creare in Terra di Israele condizioni favorevoli alla riunione degli ebrei per formarvi una maggioranza forte e duratura e di servire da centro per l’ebraismo mondiale che perpetui l’esistenza del popolo ebraico antico e gli infonda un nuovo spirito compatibile con la sua tradizione. Tutto ciò ha portato il governo ad adottare la legge del Ritorno che dà agli ebrei della diaspora lo speciale diritto di immigrare in Terra di Israele: al loro arrivo, se ne esprimono il desiderio, diventano cittadini israeliani. Il governo deve perciò decidere “chi è ebreo” prima dell’immigrazione, in virtù del mandato che ha ricevuto dall’Agenzia ebraica e non in virtù della tradizione religiosa, perché il ruolo del governo è fondare uno Stato moderno e non uno Stato ebraico, uno Stato israeliano e non uno Stato ebraico. Giungo, di conseguenza, alla conclusione che se il governo israeliano è del parere che riconoscere come ebrei i figli di madri non ebree, nel caso in cui i genitori vogliono che siano iscritti come ebrei, può servire a rafforzare la maggioranza ebraica in Terra di Israele, è autorizzato a farlo.

Tuttavia, se non sbaglio, sebbene tale conclusione sia, a mio parere, logica e basata su dei fatti, tentare di metterla in pratica rischia al momento attuale di essere nocivo anziché utile. Non c’è giorno, o quasi, che non porti nuove sorprese e nuovi rischi. Dobbiamo perciò evitare, per quanto possibile, di chiedere al mondo ebraico, in fase di consolidamento, di accettare nuovi decreti di cui mette in dubbio l’utilità e che accoglie con sospetto. Proporrei, dunque, una sorta di compromesso che consisterebbe nella distinzione tra ebreo e residente ebreo. I figli di madre non ebrea potrebbero essere iscritti come residenti ebrei e, se lo vogliono formalmente, una volta in età adulta, osservare i riti della religione ed essere iscritti come ebrei, niente di più. In questo modo, il governo assolverebbe al suo impegno senza ledere gli usi e i problemi della religione tradizionale. I miei rispetti.

(25 maggio 2014)