Qui Trieste – Il Laboratorio della Memoria, dalle Fosse Ardeatine alle neuroscienze
Un pubblico interessato e partecipe ha riempito la sala per il secondo giorno del seminario “La Memoria dei Traumi, il XX secolo” che si è tenuto a Trieste, al Laboratorio della Memoria. Uno spazio voluto per riaffermare la centralità della città non solo come luogo di incontro di tutte le minoranze, ma anche come spazio di riflessione e conoscenza delle sofferenze, dei traumi e dei diritti delle minoranze. La sessione si è conclusa con l’intervento di Alessandro Portelli, autore di “L’ordine è già stato eseguito”, testo che si interroga sul significato delle Fosse Ardeatine e su ciò che rimane della memoria della strage nazista del marzo 1944.
Memoria e traumi, elaborazione e dolore, visti e analizzati utilizzando le discipline le più diverse, sempre in dialogo fra loro, come già successo il giorno precedente. Nel secolo da poco concluso il panorama della “Memoria dei traumi” a cui riferirsi è amplissimo, un elenco di orrori che passa dalla Shoah alla Grande Guerra, dal colonialismo ai razzismi, dai pregiudizi antiafricani all’antisemitismo. Una storia intrisa di sangue e sofferenza, di difficile elaborazione. I familiari delle vittime della strage delle Fosse Ardeatine hanno vissuto, come ha raccontato a Portelli una di loro “un lutto strano, un lutto lavato, stirato e messo nel cassetto”. Un lutto posticipato, una grande difficoltà di elaborazione che ha portato a parlarne in continuazione, o – forse ancora peggio – a non parlarne mai. Dolore e violenza congelati, non elaborati, seguiti a una strage che ha avuto un enorme impatto simbolico. Il continuo ripresentarsi alla coscienza di qualcosa che non è stato superato, che non è elaborabile rende doverosa la costruzione di un senso di giustizia. Giustizia storica, non giustizia processuale, che possa aiutare a sopravvivere a una ferita ancora aperta. Nella sessione – moderata da Anna Maria Vinci, esperta di storia del confine orientale italiano fra i due conflitti mondiali – si sono intrecciati gli interventi di molti studiosi, che hannole discipline le più diverse sempre in dialogo fra loro, come già è stato il giorno precedente. L’intervento di Fabio Todero, ricercatore dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, esperto di memorialistica della Grande Guerra, si è subito concentrato su una delle categorie che ricorrono quando si parla di Memoria: l’indicibilità e la difficoltà di riferire la propria esperienza. Intervento a cui si è collegata Maryan Ismail, dell’Associazione Donne in Rete per lo sviluppo e la pace di Milano, che ha proposto ai presenti una operazione di decentramento culturale: per capire veramente è necessario mettere da parte la propria cultura, bisogna essere capaci di vedere la realtà con gli occhi dell’altro. Vedere con gli occhi dell’altro significa anche essere capaci di vedere se stessi dall’esterno, di capirsi meglio. La storia del colonialismo è ancora troppo poco nota, ed è un altro argomento in cui – come ha mostrato con grande chiarezza – persiste l’idea che il colonialismo italiano sia stato positivo, non cruento. Una narrazione che non corrisponde alla realtà, fatta invece di legislazione razzista, di segregazione e di violenze. E l’antiafricanismo resiste nel modo di pensare di molti, di troppi.
Le neuroscienze, in grado di mostrare quali sono i meccanismi fisiologici che stanno dietro a molte emozioni, dal dolore all’empatia, al Laboratorio della Memoria hanno mostrato come il dolore fisico e il dolore sociale si sovrappongano, nel cervello. Giorgia Silani e Francesco Foroni, ricercatori Scuola Superiore di Studi Avanzati di Trieste, con i loro rispettivi interventi hanno portato il discorso sulle modulazioni dell’empatia, mostrando come esistano modi molto differenti di reagire al dolore, sia proprio che altrui, e come queste vengano fortemente influenzate dal nostro rapporto con gli altri, e dalla percezione che ne abbiamo. La risonanza magnetica permette di vedere chiaramente come la propensione umana a condividere un dolore cambi in maniera molto evidente a seconda di molti fattori, e la percezione dell’altro come diverso da noi è sufficiente a modulare in maniera significativa la nostra reazione alla sofferenza. Gli studi del comportamento prosociale mostrano come il modo in cui ci si comporta nei confronti degli altri siano strettamente collegati con il modo in cui il cervello reagisce al dolore altrui. Sono le neuroscienze comportamentali a mostrare come le emozioni abbiano un enorme impatto anche sulle modalità di funzionamento della memoria: possono rendere i ricordi più vividi, ma questo non vuol dire che siano più accurati. In realtà le emozioni riducono la capacità di tenere a mente, reprimono alcune informazioni, similmente a depressione e ansia. È invece la neurobiologia che cerca di capire cosa succede quando gli essere umani si confrontano con la diversità, con persone che appartengono ad altri gruppi. Il pregiudizio, l’elaborazione delle informazioni cognitive in ambito sociale sono oggi un argomento di grande interesse per gli studi degli neuroscienziati, che nei due giorni di seminario hanno trattato di memoria, emozioni, empatia, spaesamento e marginalità. Tutti argomenti centrali anche nella narrazione orale, argomento forte di Gloria Nemec, oralista dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, che ha analizzato le storie e i percorsi di quei molti che negli anni Cinquanta, sotto la spinta di stimoli eccezionali, hanno mostrato quelle deficienze della loro condizione psichica che in condizioni normali non sarebbero emerse. Effetti dei traumi, della memoria, della Storia.
Ada Treves twitter @atrevesmoked
(25 maggio 2014)