Periscopio – Delusione Bergoglio
Pur sapendo di essere in minoranza, e ben consapevole di quanto possa risultare sgradevole turbare un condiviso clima di letizia e compiacimento, devo purtroppo dire, con amarezza, che il significato complessivo di questo viaggio del papa in Terra Santa mi pare prevalentemente negativo, e che credo che esso abbia sostanzialmente nociuto alla tanto sbandierata causa della pace. Pur senza disprezzare le parole di fratellanza e riconciliazione (non nuove, né inattese, ma comunque benvenute), e il grande significato della visita alla tomba di Herzl (quell’Herzl che, da un altro successore di Pietro, come è stato ricordato, ebbe solo un secco rifiuto), ritengo che tutto quanto di positivo possa esserci stato nel pellegrinaggio sia stato completamente vanificato dalla pessima idea di sostare in raccoglimento davanti alla barriera difensiva. Le immagini, si sa, contrano molto più delle parole, raggiungono un numero infinitamente più vasto di persone e, soprattutto, restano scolpite nel tempo, come dei simboli in grado di sintetizzare e trasmettere il senso profondo della storia e delle sue contraddizioni. E c’è da scommettere che la mano poggiata dal Pontefice su quel muro grigio, fregiato di dolorose scritte di “Free Palestine”, quegli occhi chiusi e quel volto reclinato e addolorato, in commossa meditazione, resteranno nella storia, come simbolo eloquente del dramma del Medio Oriente. Non ci sarà più bisogno di leggere, studiare, interrogarsi, perché in quell’immagine c’è tutto. Il dolore, la separazione, la guerra. E la volontà, impotente, di superare tutto questo. Eppure, sarebbe così facile farlo! Che ci vorrebbe ad abbattere un muro di pietre?
Ma tant’è. Ora anche i palestinesi – per un’opportuna ‘par condicio’ – hanno il loro Muro del Pianto, anzi, il loro Yad Va-Shem. Già ho letto e ascoltato molti commenti giornalistici – entusiasti, ovviamente – dell’equilibrio e dell’equidistanza del papa, che ha mostrato di sapersi compenetrare nel dolore di entrambi i popoli, di volersi inchinare davanti alle vittime dell’uno e dell’altro.
Un’altra immagine (questa, però, non direttamente collegabile a una scelta del Pontefice): le riprese della messa del papa a Betlemme, domenica mattina, lo hanno mostrato mentre parlava davanti a un grande affresco raffigurante Gesù bambino avvolto da un’ampia kefyah, davanti a un uditorio di ascoltatori che indossavano anch’essi, come per un accordo, la stessa kefyah. Un messaggio chiarissimo: Gesù bambino era palestinese, nato nel suo popolo palestinese, che oggi lo ricorda come uno dei suoi. Nonostante, ieri come oggi, quegli altri.
Non c’è motivo di dubitare della sincerità dei sentimenti del Pontefice, e sono certo che, a Yad Va-Shem, egli si sia davvero accorato innanzi al ricordo delle vittime. Mi chiedo a chi abbia rivolto il suo pensiero negli intensi momenti di raccoglimento davanti alla barriera difensiva. Non è dato saperlo, ma certamente l’animo del papa non è stato neanche sfiorato dal pensiero delle centinaia di cittadini israeliani (bambini, ragazzi, padri, madri, anziani) che, prima dell’erezione di quel muro, saltavano in aria, quasi ogni giorno, negli autobus, nei caffé e nelle discoteche di Israele. Né dalle migliaia di vite umane che quell’orribile muro, piaccia o non piaccia, ha slavato.
Questa totale insensibilità alle esigenze di sicurezza di Israele (“ma che pretendono questi? Perché sono così fissati con la paura degli attentati terroristici?”) non è certo una novità, e non si può pretendere dal papa una comprensione che gran parte del mondo mostra di non volere assolutamente avere. Ma è la prima volta che, con la grande autorevolezza della sua persona, e con la forza evocativa di un’immagine-simbolo, destinata a passare alla storia, tale semplice richiesta di vivere viene elevata, anzi, degradata a “sacrario di dolore”, abominio, vergogna, al pari delle Fosse Ardeatine, Marzabotto, Auschwitz.
Peccato, Francesco.
Francesco Lucrezi, storico
(28 maggio 2014)