Ticketless – Misautia

cavaglionAvrei preferito tenermi fuori dalla disputa, ma il pizzico di vanità che i Maestri concedono a chi studia ha avuto la meglio. In un mio libro di più di venti anni fa, riedito nel 2003, studiando la incredibile fortuna dell’opera del viennese Otto Weininger, mi sono occupato dello jüdische Selbsthass. Fino alla vigilia del secondo conflitto mondiale il fenomeno ha avuto una sua dignità storiografica, per l’importanza che vi attribuirono Freud, Kraus e, soprattutto, un discendente del grande Lessing, Theodor Lessing. In esilio a Parigi, un anarchico lodigiano vittima dello stalinismo, Camillo Berneri, se ne servì come metafora delle guerre intestine che laceravano il fronte dell’antifascismo europeo durante la guerra di Spagna.
Che cosa è rimasto di quel dibattito? Nulla, nemmeno, che io sappia, tra gli psicoanalisti che dell’ebraismo antisemita avevano delimitato per primi i contorni. L’odio di sé è diventato uno dei cento argomenti che avvelenano la discussione sul Medio Oriente. In Francia un libro di Paul Giniewski negli anni Ottanta tentò una fiacca riabilitazione, suscitando le giuste rampogne di Pierre Vidal-Naquet, in Italia, di Cesare Cases. Intervengo nella disputa anche per difenderlo. È uno degli imputati di Meotti. Non può difendersi da solo. Sono testimone del suo intimo travaglio, per altro visibilissimo nelle cose che ha pubblicato negli ultimi anni (il duello ebraico con Fortini attende di essere studiato). Una cosa è sicura. Per chi abbia a cuore la pace in Medio Oriente, la “misautìa”, così i Greci chiamavano l’odio di sé – il problema non riguarda solo gli ebrei – va abbandonata. Si può essere sostenitori o critici ad oltranza di una delle due parti in causa – israeliani o palestinesi – ma, in un caso come nell’altro, è sempre meglio non oltrepassare la soglia del “ragionevole dubbio”.

Alberto Cavaglion

(28 maggio 2014)