L’Yiddishkeit di Malmud
Non ho neanche io ben chiaro il perché, di fronte ai vari scrittori conosciuti nell’arco di ventisei anni, Bernard Malamud abbia lasciato nella mia formazione letteraria un’impronta talmente durevole, forse superiore rispetto ad altri. Tanto da propormi di riservare ancora per un domani la lettura di due o tre romanzi e di alcuni racconti, per non perdere la possibilità di essere travolto nuovamente nel suo mondo sempre in bilico tra realtà e qualcosa di non ben determinato che trascende da essa. Autore che, almeno in Italia, non hai mai ricevuto la dovuta considerazione, tutt’oggi è sempre meno reperibile sugli scaffali delle nostre librerie. Una fortuna letteraria in conformità forse con la propria esistenza, più lontana e distaccata rispetto ad altri autori appartenenti alle sfere intellettuali ebraico-newyorkesi, che godettero probabilmente di un risalto e riconoscimento pubblico maggiore. Più di altri, Malamud, fedele alle proprie origini ebraico-russe, è riuscito a preservare nella propria scrittura gran parte del canone russo, mitteleuropeo e anglo-americano, e a trasferire nella New York proletaria in ombra dai grattacieli di Manhattan, parte di quel vecchio mondo perduto del Yiddishkeit, raccontato da maestri come Scholem Aleichem o contemporanei come Isaac B. Singer. Dove l’ebreo che mette in scena è sì l’eterno esule, disilluso dal sogno americano della Goldene Medine, ritrovatosi come Karl di America perso e sradicato nell’impenetrabile paese-motore del sistema capitalista, ma in fondo il suo ebreo è soprattutto l’uomo moderno, vittima improvvisa del violento passaggio di due ere contrapposte – sua è la frase “All men are Jews except they don’t know it” -. In questa desolazione, in questa eclissi del vecchio mondo e delle sue istanze di riferimento ideologiche e morali, l’unica possibilità di salvezza e di redenzione per l’individuo è soltanto praticabile nel pur complesso, e tormentato rapporto con il proprio simile che condivide lo stesso inesorabile destino, come risulterà del resto anche per la coppia Estragon/Vladimir in “Waiting for Godot” di Samuel Beckett. Anche la fede in D-o diviene distante e irraggiungibile, se prima l’uomo non passa dalla conoscenza e dalla comprensione del suo prossimo, come accadrà infatti per l’aspirante rabbino Leo Finkle nel “Barile Magico”, che per dare la precedenza ai propri studi in Yeshiva, aveva trascurato qualsiasi relazione sociale e sentimentale, giungendo poi alla presa di coscienza, dopo il primo incontro con una donna, che “non amava D-o come avrebbe dovuto perché non aveva amato l’uomo”. Così sarà anche per quei bottegai, artigiani ed emigrati onnipresenti nelle pagine dei suoi scritti, che come moderni Giobbe non si capacitano del perché nonostante una vita onesta o la propria osservanza religiosa si trovino ad un tratto in condizioni di miseria ed indigenza, o lo stesso per gli scrittori mediocri, altro tòpos di Malamud, rinchiusi come anacoreti in appartamenti del Lower East Side, i quali in fuga dalla realtà divengono incapaci, o impossibilitati a scrivere ancora. Le botteghe o gli edifici, rappresentato con le proprie mura, senz’altro una difesa protettiva dal caos esterno dominato da leggi che appaiono prive di ratio, luoghi dove il mondo di ieri potrebbe ancora perdurare ostinatamente tra la polvere e articoli di poco valore, sempre però che accanto al proprio negozio non aprano un nuovo supermercato come nel “commesso” o sempre che il palazzo in questione non sia quello degli “Inquilini” che sta per essere demolito, così che allora diverrà inattuabile voltare le spalle all’irrompere del presente. Come è infine impossibile, rifuggire e “spogliarsi” della propria identità ebraica, che spesso i personaggi di Malamud tentano di celare e rinnegano, nonostante ogni sforzo questa sarà sempre alle nostre spalle, sotto le sembianze dello shnorrer Shimon Susskind nel ”Ultimo Moicano” o davanti a noi, alla fine del nostro percorso, come succederà ad Henry Levin/Freeman nella “Dama del Lago” che scorgerà il suo ebraismo tradito negli occhi della propria amata.
Francesco Moises Bassano
(30 maggio 2014)