Qui Milano – Dna e bioetica ebraica

gianfranco di segniEsiste un Dna ebraico? Si può definire l’esistenza di un popolo in termini genetici? O ancora accertarne, in termini genetici, l’appartenenza di un individuo? Domande alla base dell’incontro organizzato a Milano da Progetto Kesher che ha visto la partecipazione di rav Gianfranco Di Segni, coordinatore del Collegio rabbinico italiano e primo ricercatore presso l’Istituto di Biologia Cellulare e Neurobiologia del CNR, e di Daniela Ovadia, giornalista scientifica ed esperta di neuropsicologia cognitiva, con l’introduzione del direttore del dipartimento Educazione e cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e dell’associazione milanese rav Roberto Della Rocca. Un tema quanto mai attuale anche alla luce dell’approccio spesso riservato a questi argomenti a livello mediatico, pensando per esempio all’eco provocato dalla recente rivelazione che l’amante di Adolf Hitler, Eva Braun, sarebbe stata di origine ebraica in base a un esame del Dna di alcuni capelli condotto dal programma televisivo britannico “Dead famous Dna”, che richiamerebbe una sequenza generalmente associata agli ebrei ashkenaziti e che è stata raccontata sui giornali con approccio superficiale e scandalistico, quasi ad avvalorare la tesi che si possa effettivamente parlare di “razza” ebraica.
“La risposta alla domanda se esista o meno un Dna ebraico è ovviamente negativa, così come non esiste un dna italiano o tedesco o di qualsiasi altro popolo – sottolinea rav Di Segni – Allo stesso tempo è invece possibile individuare alcune caratteristiche sia a livello individuale sia di popolazione. Per esempio, nonostante la diversa provenienza geografica, esistono alcuni tratti genetici comuni tra ebrei ashkenaziti e sefarditi”.
All’origine di questi studi, il caso particolare dei Cohanim, coloro che la tradizione ebraica spiega discendere tutti dalla famiglia di Aronne, fratello di Mosè cui fu affidato l’incarico sacerdotale, un’ipotesi che gli studi di genetica delle popolazioni hanno avvalorato.
“È importante ricordare che, guardando all’intero Dna, è più probabile avere una somiglianza con il primo passante che incontriamo per strada che con coloro della nostra stessa origine, fermo restando che gli esseri umani si assomigliano tutti – ha sottolineato Ovadia – Il discorso cambia se cerchiamo alcune piccole caratteristiche, specie legate alle malattie, caratteristiche che però sono etniche, non razziali e sono naturali in qualsiasi gruppo in cui è forte l’uso di sposarsi all’interno della propria comunità. Così per esempio esistono determinate malattie molto frequenti tra gli ebrei ashkenaziti, che vissero molto più isolati e sottoposti a persecuzioni di quanto accadde agli ebrei sefarditi”.
Questa situazione ha reso frequente, specialmente negli Stati Uniti, il ricorso al counselling genetico per verificare la presenza di malattie di cui genitori della stessa origine possono essere portatori sani e rischiare di trasmetterle ai figli. Così rav Di Segni ha spiegato anche quali sono le soluzioni possibili approfondendo l’approccio della bioetica ebraica, che consente, per esempio, la fecondazione in vitro e il conseguente impianto di embrioni sani, perché l’embrione non è considerato persona fino al quarantesimo giorno di età. “Un approccio che consente di evitare la nascita di bambini malati” ha sottolineato il rabbino.
Questioni dunque di cui è importante sviluppare maggiore consapevolezza. Anche per evitare il rischio di distorsioni che, data la delicatezza della materia, possono portare a conseguenze pericolose.

rt

(30 maggio 2014)