Il fronte del rifiuto

claudiovercelliLa tornata elettorale europea appena trascorsa ci ha consegnato risultati in parte sorprendenti, tuttavia confermando alcuni pronostici. Tralasciando per un attimo le considerazioni relative ai dati nostrani, che ovviamente possono essere letti in molti modi ma che tuttavia confermano la persistenza di un’anomalia italiana, questa volta in positivo, rimane lo scenario continentale. Il quale dà adito a preoccupazioni. Che ogni paese sia realtà a sé, e che non tutto collimi, è un aspetto da tenere nell’opportuna considerazione. Dopo di che, con tutte le cautele del caso, rimane il fatto che il risultato raccolto dalle formazioni che, a vario titolo, vengono chiamate populiste, obbliga ad un supplemento di riflessioni. Non tutto il populismo – termine in sé generico e così abusato da rischiare di non dire nulla – viene necessariamente per nuocere. Un esempio tra i tanti è quello che rimanda alla presidenza di Franklin Delano Roosevelt la quale, per l’accentramento decisionale che la caratterizzava, per il costante richiamo al «popolo sovrano», le continue conflittualità con i poteri federali, insieme ad un più generale stile d’azione e di pensiero, da alcuni politologi e storici è stata annoverata – per l’appunto – tra le espressioni del populismo del secolo trascorso. Ma al di là di parallelismi storiografici più o meno fondati, ciò con cui dobbiamo (e dovremo sempre più spesso) concretamente confrontarci è l’insorgenza di un fenomeno diffuso, quello della presa elettorale che formazioni politiche che fanno del rifiuto del «sistema» di poteri vigenti la loro bandiera, vanno registrando un po’ per tutto il Continente.
Il populismo si presenta, oggi, come un discorso fatto al popolo, sul popolo, per il popolo di contro agli assetti e agli equilibri emersi dopo la fine del bipolarismo. La sua forza sta non solo nel cavalcare disagi e malumori ma nel fingere di dare una forma definita alla moltitudine di persone che, per l’appunto, appella come «popolo sovrano».L’implosione dell’alternativa socialcomunista, avvenuta già più di due decenni fa, ha liberato uno spazio di rappresentanza che ora, nella crisi indotta dalla trasformazione degli assetti globali, trova nelle formazioni politiche che rinviano al populismo, un solido aggancio. Il nesso tra ciò che chiamiamo «crisi economica», declino delle sovranità nazionali e consunzione del ceto medio costituisce una miscela fenomenale, che alimenta ad oltranza questo processo. Più che al ritorno del fascismo, come certuni, sulla scorta di una reazione emotiva più che razionale, sono tentati di denunciare, assistiamo al mutamento radicale del campo della politica, ossia delle sue ragioni d’essere, dei suoi fondamenti, della sua interna razionalità. Se un tempo l’obiettivo che ad essa era assegnato era quello di garantire la coesione sociale, mediando nei conflitti di interessi che attraversano le società, oggi essa perde quei caratteri, per assumerne altri. Il populismo non è allora qualcosa che va ad inserirsi in ciò che già c’è ma piuttosto un fenomeno composito, multiforme che si sostituisce a quello che c’era e che adesso sembra non servire più. Alle tendenze oligarchiche, presenti nelle nostre società come nell’Unione europea – che affidano a élite ristrette, presentate perlopiù come espressione di una «tecnica» neutra, dove la decisione è un fatto estraneo alle passioni e agli interessi -, si contrappone una concezione giacobina della rappresentanza, quella della cosiddetta «democrazia diretta», basata sul legame diretto, passionale, umorale tra il leader onnisciente e la massa di sostenitori.
Poco o nulla conta per una parte dell’elettorato che si tratti di un’illusione, essendo alla ricerca esasperata di speranze, quand’anche esse siano fondate su una visione magica e infantile. Per quest’ultimo, infatti, quel che conta è recuperare un orizzonte dentro il quale confidare di avere un qualche spazio di rappresentanza, sentendosi altrimenti scavalcato ovunque e comunque. In altre parole, il meccanismo populista raccoglie tale bisogno e lo tramuta, all’intero di un sistema politico che sempre più spesso dà spazio alla spettacolarizzazione, in una vera e propria “messa in scena”. Il successo di personaggi da palco come Beppe Grillo deve molto a questo processo, dove l’effetto di amplificazione, unito a quello di identificazione emotiva tra spettatore e attore, è parte integrante della proposta politica. Anzi, per più di un aspetto si sostituisce ad essa, o la inserisce al suo interno. Quanto i mezzi di comunicazione di massa incidano in tal senso, è parte della riflessione. Ma che abbiano un ruolo rilevante è fuori di discussione. La forza di Grillo, per rimanere alla manifestazione domestica del populismo, deriva infatti non tanto dal web quanto dall’essere stato conosciuto, una generazione fa, attraverso la televisione. Cosa che si è poi trasmessa ai più giovani, attraverso i new media. La politica, d’altro canto, non è solo un processo razionale e neanche necessariamente ragionevole, mischiando piuttosto il calcolo alla fantasia, l’interesse alla passione, la storia al mito. I movimenti populisti si alimentano sempre dei fattori secondi in questi binomi. Portandoli a potenza critica ed offrendoli ai loro sostenitori come la soluzione dei problemi complessi. Il populismo contemporaneo, infatti, nega alla radice la complessità delle nostre società, denunciandone semmai il tratto – a suo dire – falsificante. La logica del populismo è infatti rigorosamente binaria: sì o no, giusto o sbagliato, vero o falso e così via, raccogliendo facilmente seguito tra quanti si sentono compressi (e compromessi) da trasformazioni strutturali di cui subiscono gli effetti ma sulle quali non possono incidere in alcun modo. Il populismo dà così voce al senso di alienazione, di marginalità e di espropriazione che attraversa le nostre società. È una voce tanto suadente quanto fallace, ma comunque seduttiva.
Il voto europeo del 25 maggio ha confermato questa tendenza, diffusa in tutto il Continente. Il tramonto delle certezze, la solitudine dei molti, la paura per un futuro visto come potenzialmente minaccioso hanno premiato, con la rilevante eccezione dell’Italia e della Germania (sia pure per ragioni tra di loro molto diverse), le formazioni estremiste. Da ciò a ritenere che l’avvenire del progetto federativo europeo sia compromesso ne corre. Tuttavia il segnale è adesso tanto forte quanto inquietante. Attribuirlo ad un presunto ritardo culturale o civile degli elettori che stanno premiando i partiti populisti è fatto di totale miopia. Poiché a motivare tale scelta è soprattutto la paura. Quella di non avere un domani. Il radicalismo populista, che ha un forte baricentro nella destra politica antiliberale ma che trova riscontri anche in alcuni spezzoni della sinistra, è costituito da veri e propri imprenditori politici dell’angoscia. Se l’Unione europea era nata per liberare i popoli continentali da questo fantasma non si può certo dire che sia riuscita a raggiungere l’obiettivo prefissosi. Semmai rischia di alimentarlo, quanto meno nel momento in cui si presenta nel peggiore dei modi, ossia come un coacervo di istituzioni autoreferenziali, con scarso o nullo insediamento nei territori sui quali, tuttavia, le sue scelte ricadono quasi a cascata. La dimensione tecnocratica è un vincolo che rischia di svuotare dal di dentro ogni sua residua credibilità. L’ossessione che è andata affermandosi, tra una parte della popolazione continentale, nei confronti dell’euro, visto come uno strumento per distruggere le sovranità nazionali e, con esse, le tutele sociali che queste garantivano, ne è l’indice più evidente. Inutile contrapporre a questo timore i benefici che oggettivamente la moneta unica offre a chi la usa. Si tratta infatti di un meccanismo di identificazione e di imputazione di responsabilità che esula da qualsiasi riscontro obiettivo.
I partiti populisti lo sanno bene, e ne sfruttano le opportunità. Ragion per cui la legislatura che va inaugurandosi sempre più spesso dovrà confrontarsi non solo con la loro robusta presenza parlamentare ma anche con umori mutevoli ma comunque contrassegnati dalla crescente diffidenza. La tentazione del rifiuto integrale dell’Unione, nella speranza che la storia sia come un nastro che possa essere riavvolto su di sé, è oramai un fattore strutturale nelle dinamiche politiche europee. Si coniuga al vuoto della proposta che, negli altri campi, tra i tanti protagonisti, si è purtroppo andato affermando. La politica si è spesso ridimensionata ad un esercizio finanziario. Il populismo riempie questo vuoto, dà forma e sostanza alle paure, le guida verso obiettivi, ossia capri espiatori, ridisegna l’orizzonte introducendovi promesse, speranze così come invettive e proscrizioni. In questo, per più aspetti, è ciò che resta della politica dopo la sua stessa consunzione a promessa illusoria. Gli show di comici che si improvvisano politici, la riduzione del linguaggio a invettiva (un fatto che dura da almeno vent’anni), la spregiudicatezza della menzogna fatta passare per astuzia e furbizia, il richiamo agli «istinti» di bassa lega raffigurati come il comune (e sincero) sentire, l’offesa ripetuta come atto di autoaffermazione, la mancanza di civismo sostituito dalla morale del branco, come tutto il resto, costituiscono il campo dentro il quale si sfarina qualsiasi legame sociale che non sia basato sulla prevaricazione.
Non basta, rispetto a questa deriva, richiamarsi ai principi civili.
Il populismo è infatti oltre essi, avendoli piegati alla sua lettura. Il che costituisce una sfida a pieno titolo, richiedendo che ad esso sia data una risposta non solo di ordine morale bensì strutturale, rinviando ai modi (o all’assenza di modi) con cui le nostre società integrano gli individui o li pongono nelle condizioni di sentirsi emarginati al punto tale da non avere più nulla da perdere nel metterne in discussione gli assetti profondi e condivisi.

Claudio Vercelli

(1 giugno 2014)