J-CIAK – The Congress

j-ciakSolo una settimana fa rimbalzava sui giornali una strana gallery d’immagini: Johhny Depp nei panni del pirata Jack Sparrow, la faccia stravolta di Jack Nicholson in Shining, Russel Crowe e un pugno di altre star. Nulla di che, se non fosse che quei ritratti non erano fotografici ma elaborazioni 3D realizzate utilizzando il computer. È solo un minimo assaggio di quel che potrebbe essere un futuro in cui gli attori in carne e ossa divengono superflui perché il nuovo Johnny Depp – come d’altronde tutti noi – può essere tranquillamente e forse più economicamente generato da un software.
La prospettiva di un avatar sul grande schermo può lasciare abbastanza indifferenti, ma cosa ne pensereste di una pillola che per una manciata d’ore vi fa sentire Johnny Depp, Angelina Jolie o chi più vi piace e mettere in scena il vostro film privato, senza porre limiti all’immaginazione?
È lo scenario orwelliano costruito in The Congress dall’israeliano Ari Folman, che nel 2008 aveva conquistato le platee internazionali grazie a Valzer con Bashir, animazione secca e potente che narrava la vicenda di un reduce della guerra del Libano. Con il suo nuovo lavoro, da oggi nelle sale italiane, il regista si dà un respiro ancor più amaro e visionario e ci guida, con una tecnica strepitosa che mischia scene quasi documentaristiche a un’animazione raffinatissima, in un futuribile domani dominato da bellezza, gioventù, soldi, chimica, omologazione.
La storia, complessa al punto che è impossibile da raccontare in poche righe, vede la protagonista (Robin Wright nel ruolo di se stessa), attrice di gran bellezza alle prese con la mezza età, vendere per vent’anni la sua immagine scansionata agli studios che acquistano così il diritto di farne ciò che preferiscono. Alla scadenza del contratto la donna, sullo schermo rimasta sempre giovane e bella, scopre di essere sul punto di divenire una formula chimica, un’esperienza che ciascuno può generare come più preferisce. Una prospettiva dura da accettare, che le imporrà una scelta difficile.
Ari Folman adatta ai nostri tempi Il congresso di futurologia, un classico di Stanislaw Lem, autore già amato da Tarkovskij che nel 1972 dal suo Solaris trasse l’omonimo film. “La prima volta che ho letto il romanzo avevo 16 anni, ero un appassionato di fantascienza e me ne sono innamorato. La seconda volta è stato durante la scuola di cinema, quando decisi per la prima volta che da quel testo volevo trarre qualcosa di cinematografico”. “È stato solo dopo essermi immerso profondamente nell’animazione girando Valzer con Bashir – continua – che sono riuscito a immaginare come adattarlo. Mi ci è voluto un anno intero per scrivere la sceneggiatura e mi sono allontanato parecchio dal testo originale, ma vi sono sempre tornato ogni volta che scrivendo mi sono sentito perduto. Credo che lo spirito del romanzo sia in gran parte presente nella parte finale del film e di certo lo è molto nella parte di animazione”.
Al centro del romanzo di Lem, autore che per le sue origini ebraiche patì la persecuzione nazista e poi si trovò a fare i conti con il regime sovietico, una dura critica all’autoritarismo del regime totalitario che nel racconto per immagini di Folman assume toni e colori nuovi. “Sentivo che adattando un classico devi avere il coraggio di essere libero e non devi fartene intrappolare. Stavo cercando una nuova e attuale dimensione per l’allegoria per l’allegoria dell’era comunista descritta nel libra. Nel processo di scrittura la dittatura chimica del libro ha dunque preso forma come dittatura del business dello spettacolo e in particolare dell’industria cinematografica controllata dai grandi studios”.
È un vero e proprio grido di rabbia e di dolore contro la logica del profitto che cerca ormai di governare anche il tempo della nostra fantasia, quello lanciato da Ari Folman che in quest’impresa, già osannata dalla critica, mischia con abilità fiction, fantasy, fantascienza e racconto filosofico per dare vita uno di quegli universi distopici oggi tanto amati dal cinema. Un mondo inquietante per cui, con tocco ironico, Folman rivisita le tecniche d’animazione messe a punto negli anni Trenta dai fratelli Max e Dave Fleischer, due fratelli padri di Betty Boop e di Popeye, figli di quella Cracovia ebraica che tanta parte ebbe nella cultura novecentesca. E se si considera che anche Wes Anderson, altro gran cineasta, nel suo ultimo Gran Budapest Hotel ha trovato ispirazione in un brillante trio di emigrati ebrei -Stephan Zweig, Ernst Lubitsch e Max Ophuls – in fuga dalla Mitteleuropa in fiamme, viene da riflettere sul senso dei corsi e ricorsi storici.

Daniela Gross

(12 giugno 2014)