selfie…

A me le selfie preoccupano. Mi preoccupa la visione della vita che resta dietro o davanti alle selfie stesse. Un tempo l’idea dell’autoscatto nasceva come fotografia inclusiva, come momento nel quale anche il “fotografo” veniva inserito nella fotografia, insieme alla famiglia, agli amici, alla classe, al gruppo scout. La selfie nasce su altre basi concettuali. Il fotografo che ritrae se stesso lo fa per celebrare un incontro importante, un momento storico, un istante da immortalare, ma sopra ogni cosa un immagine da condividere e da far vedere. La selfie non vuole rendere eterno un determinato momento della nostra vita, vuole rendere pubblico un momento della nostra vita privata. Mi fotografo per mostrare, non fotografo per ricordare. Mi fotografo per rendere pubblico un momento della mia vita, quasi come se senza selfie la mia stessa vita non abbia senso. Sembra che la selfie sia diventata l’unica forma di legittimazione della nostra vita: selfie ergo sum. Ergo esisto, ergo vivo, ergo faccio incontri importanti, sono famoso, ho una socialità invidiabile, una famiglia sorridente (almeno dietro la selfie), un cane intelligente, un figlio simpatico e sveglio, una moglie o marito che mi ama, una bisnonna super moderna. Ma mentre ci selfiamo con tutti, da Enzo il portiere a Papa Bergoglio, viviamo davvero la nostra vita o siamo troppo impegnati a pubblicizzarla per viverla? E se smettessimo di pubblicare ovunque la nostra vita questa perderebbe il suo senso o acquisterebbe una essenza che stiamo sempre più regalando ai social network? Il presenzialismo reale, la corsa alla presenza sociale, all’essere ovunque, dovunque e con chiunque sta cedendo il passo al presenzialismo virtuale, alla celebrazione di me stesso che fotografa me stesso e pubblica me stesso mentre sono insieme a qualcuno ( anche solo per un secondo) che servirà a dare pubblica fama a me stesso. L’Io che nell’autoscatto correva ad inserirsi in un gruppo, in un momento collettivo da ricordare, nella selfie diventa solitario, un Io che si celebra fino alla noia e strumentalizza tutto e tutti per la gioia del sé. La selfie stravolge in quanto gesto da click il motto di Hillel in Avot 1, 14 : “Se io non sono per me chi è per me?” Ed ecco che quindi prendo il mio cellulare e fotografo. “E se io sono solo per me stesso, cosa sono?” Ed ecco che per essere pubblicamente, per esistere davvero devo pubblicare la mia vita, renderla accessibile a tutti. “E se non ora, quando?” Ed ecco che ogni momento, ogni ora diventa una occasione da sfruttare per la mia celebrità, certo non un momento da vivere intensamente. Povero Hillel, spero che perdoni il mio uso egoista e “selfie” delle sue parole.

Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino

(13 giugno 2014)