Il lupo e gli agnelli
Come un vero e proprio virus, che allarga il suo campo d’azione e moltiplica i suoi effetti dinanzi all’inettitudine di chi avrebbe invece dovuto debellarlo, “scopriamo” adesso che per le milizie fondamentaliste il tempo non è trascorso invano. Il disastro politico e militare dell’Iraq è sotto gli occhi di tutti: l’esercito lealista si rivela inadeguato rispetto alla forza degli insorgenti; la capacità di reclutamento di questi ultimi si alimenta sempre di più dello sbando delle forze di Bagdad; il parlamento iracheno non è riuscito neanche a votare una legge che dichiari lo stato d’emergenza; i ribelli e gli insorgenti, baldanzosi, si esibiscono con il materiale e gli armamenti sottratti alle truppe del governo centrale; la credibilità delle autorità politiche è prossima allo zero, potendo confidare solo sulla paura che i più avverto dinanzi all’avanzata islamista; la popolazione fugge dai luoghi dei combattimenti, in un esodo che di giorno in giorno, coniugandosi a quello siriano, si fa sempre più consistente, alimentando un’emergenza non solo più umanitaria ma anche socio-demografica.
Parlare di terrorismo (e, correlativamente, di guerra al terrore) è a questo punto non solo un po’ poco ma anche assai scarsamente realistico, quanto meno se si così si ritenesse – invece – di avere qualificato una volta per sempre la natura del processo in atto. che è semmai molto più complesso. Ciò che si va configurando nell’Iraq settentrionale e nella stessa Siria, quindi in una dimensione che è regionale o comunque interstatale e sovranazionale, è il sopravvento di un’organizzazione armata con una robusta filiera organizzativa e un’ossatura politica che sono il prodotto di una selezione di oramai lungo periodo. La sua forza si è senz’altro alimentata nel corso degli anni grazie alla debolezza, se non all’inconsistenza, della risposta dell’imbelle governo centrale iracheno. Quest’ultimo è fazionalizzato e diviso da inconciliabili competizioni intestine, destinate a decretarne il fallimento su tutta la linea. Finché l’impegno militare e finanziario americano è stato corposo e strategicamente calcolato (così come era abituato a fare il generale Petraeus, cercando alleanze sul terreno con le fazioni disponibili al dialogo e allo scambio) le sorti, sui campi di battaglia, sono rimaste in parte incerte ma comunque relativamente stabili o prevedibili nel breve e medio periodo. Dopo di che, venendo ai giorni nostri, con il ritiro delle truppe statunitensi, tutta l’impalcatura, già scricchiolante, è andata vistosamente piegandosi. Con la prospettiva, a conti fatti, che crolli di qui a breve. Un film, quest’ultimo, già visto una quarantina d’anni fa con l’exit strategy nixoniana della «vietnamizzazione» del conflitto nel Sud-Est asiatico. La cosiddetta «transizione democratica», che avrebbe dovuto avere corso dal momento in cui Saddam Hussein fu defenestrato, si è quasi da subito ridimensionata alla tripartizione di fatto di quello che fino al 2003 aveva ancora le parvenze di uno Stato unitario. Ad oggi è un territorio diviso in tre zone d’influenza (la curda, la sunnita e la sciita), con possibili se non probabili riversamenti, ribaltamenti e stravolgimenti a venire rispetto ad un equilibrio delle giurisdizioni oramai anch’esso illusorio. Lo scontornamento in Siria, con la guerra civile che dura già da almeno tre anni, è il frutto velenoso delle incertezze e della mancanza di una chiara politica di gestione dei delicati rapporti tra territori, fazioni etniche e politiche, interessi e ruoli da sempre in competizione tra di loro. Se fino a qualche anno fa tale disposizione dei fatti non si traduceva in conflitto armato, trovando nei filtri autoritari, se non dittatoriali, dei regimi in carica il punto di obbligata sintesi, ora le cose sono radicalmente mutate. Guardando la cartina della regione, da Aleppo alle periferie di Bagdad si articola adesso la violenta e bellicosa presenza dell’Isis o Isil (in arabo Dāʿish), che dir si voglia, acronimo di Stato islamico dell’Iraq e del Levante, «al-Dawla al-Islāmiyya fī al-ʿIrāq wa al-Shām». Il nome, peraltro, è già cambiato più di una volta. Si tratta di una organizzazione jihadista, di osservanza sunnita, nata nel 2003, con la deposizione di Saddam, unitasi quasi da subito ad al-Qaeda, per poi dissociarsene successivamente. Sul piano operativo al-Qaeda opera in Siria e nei territori contigui per il tramite del cosiddetto Fronte al-Nusra, quest’ultimo costituitosi nel 2011. Capire le mutevoli ramificazioni del jihadismo non è cosa facile, trattandosi di una galassia in perenne movimento, dove spesso le medesime persone possono cambiare repentinamente collocazione. Ma coglierne la struttura, al medesimo tempo molecolare e a ragnatela, mobile e duttile, serve per comprendere quale sia l’evoluzione degli interessi (e dei protagonisti) in campo. Poiché uno degli elementi che, soprattutto allo sguardo occidentale, più hanno giocato come fattore di equivoco interpretativo è il continuare a non capire (o il fingere di farlo) che il radicalismo islamico concretamente si muove intorno all’asse delle guerre infra-musulmane, ponendosi come antagonista di ciò che definisce come alieno da sé, ciò l’Occidente medesimo, prioritariamente come richiamo propagandistico. Non che non si adopererebbe, qualora ne avesse le forze, per avviare un conflitto a tutto tondo contro Washington, Londra, Parigi, Gerusalemme. Di riscontri se ne hanno anche avuti. Ma un conto è l’eclatanza del singolo gesto terroristico, altra cosa è una vera e propria guerra campale, per la quale non ha alcuna risorsa, ridimensionandosi all’assai più lucroso obiettivo di contrastare il reticolo di poteri legittimi, tra Teheran, Damasco, Bagdad, San’a, Kabul ma anche Amman e Riyad. La questione, quindi, all’interno di un campo di priorità strategiche e di opzioni materialmente praticabili, è di assicurarsi una presa definitiva su territori che già di per sé sono parte del mondo musulmano, contendendoli ed espugnandoli alle autorità al potere. In quest’ottica l’Isil, si diceva, rompe definitivamente con il meta-gruppo di Ayman al-Zawahiri nel 2013. Non di meno, tuttavia, gli obiettivi manifesti non si discostano più di tanto da quelli dichiarati dall’organizzazione che fu di Osama bin Laden: instaurazione della Sharia e introduzione di una rigida ortodossia religiosa; superamento della separazione tra politica e religione; costituzione di un califfato islamico riunendo Siria ed Iraq in un’unica organizzazione politica. In prospettiva, anche altre realtà come il Libano interconfessionale, le regioni meridionali dell’Iran e della Turchia, la stessa Arabia Saudita dovrebbero entrare, nel domino regionale di cui l’Isil è auspice. Quanto questo disegno possa tradursi in fatti definitivi non lo si può ancora dire, stante l’attuale stato delle cose. Plausibile un nuovo intervento americano, la cui misura, tuttavia, dovrà essere quantificata nelle prossime settimane. Intanto la Giordania si prepara al peggio avendo ammassato truppe al suo confine orientale. Quello che è sicuro già da adesso è la catastrofica emergenza dettata dal fenomeno dei profughi, che sta attraversando tutta la regione, coinvolgendo milioni di persone, e che costituisce, da subito, il risultato più evidente ed immediato – nonché voluto – di un ribaltamento di equilibri appena iniziatosi.
Claudio Vercelli
(15 giugno 2014)