Guerra e pace, dieci anni dopo

tzeviDieci anni fa – iniziavo allora a fare politica – discutevamo e ci dividevamo sulla guerra e sulla pace. Dopo la distruzione delle Torri gemelle gli americani costruirono una grande coalizione e attaccarono l’Afghanistan, culla dell’orrore talebano. In pochi si opposero anche se molti paventavano i rischi. Due anni dopo, nel 2003, partì l’offensiva contro l’Iraq, guidata dagli USA senza consenso internazionale e con alcuni alleati occidentali, tra cui l’Italia. “Coalizione dei volonterosi”, si proclamò la compagine, e in pochi mesi parve capace di vincere e abbattere Saddam Hussein.
Ancora non sapevamo dell’inganno delle armi di distruzione di massa, che non c’erano, ma in molti ci opponemmo a quella guerra. Manifestazioni gigantesche riempirono le piazze di tutto il mondo. Gli schieramenti erano chiari: da una parte i pacifisti, dall’altra tutti coloro – e non erano pochi! – che credevano all’esportazione della democrazia con le armi, alla nuova cartina del Medioriente, agli ideologi neo-con che spopolavano nelle tv. Anche in Italia c’erano i neo-con de noantri, c’era chi andava fieramente a braccetto con Maurizio Gasparri (sì, proprio lui!) e Magdi Allam (non ancora Cristiano). Era il culmine del Silvio nazionale, guascone e guerrafondaio.
Avevamo ragione noi, potremmo dire. Basta leggere i giornali di oggi. Come è andata a finire! Ma sarebbe una ben vana consolazione… Nel libro “La sinistra e Israele”, Fabio Nicolucci spiega bene come i neo-con fossero i più preparati all’indomani dell’11 settembre 2001. Di fronte a un fatto così epocale, tirarono fuori dal cassetto i piani e i libri scritti nei venti anni precedenti. Fu questa la loro forza, sostanziatasi nei think-tank degli anni Novanta, mentre tramontava l’Amministrazione Clinton e con essa i suoi sforzi per la pace. Avevano un’idea precisa – rivelatasi fallimentare! – gli altri no.
Nel 2009 Barack Obama pronunciò uno straordinario discorso nell’aula magna dell’Università del Cairo. Voltava pagina dalle disastrose politiche di Bush e apriva un confronto con il mondo arabo-musulmano, dove la reputazione occidentale aveva toccato i suoi minimi storici. Non credo che avesse sbagliato, penso anzi che avesse ragione, ma la storia è andata in un’altra direzione. Le primavere arabe si sono trasformate in un impasto pericoloso di religione e settarismo, e a malincuore siamo costretti a rimpiangere la stabilità dei dittatori mediorientali. Persino di fronte ai trecento mila morti siriani restiamo muti. Non sappiamo che cosa augurarci e ci vergogniamo del nostro cinismo.
E oggi? Nessuno pensa di combattere una seconda guerra irachena. Eppure il rischio è altissimo: lasciare che prevalgano i qaedisti o rivolgersi agli iraniani per il lavoro sporco? Altro che Saddam, verrebbe da dire! La situazione precipita, e i tempi sono stretti. Dieci anni dopo, sono lieto che le fanfare bellicose e le certezze tonitruanti siano mute. Ma ho paura per i pericoli che corriamo e che corre Israele, frontiera dell’Occidente. Avverto come allora l’urgenza e l’impotenza di una visione di insieme che manca, di un’idea generale sul mondo dei prossimi anni: che cosa fare, come agire? Se non ci pensiamo noi, qualcuno tirerà fuori un’idea dal cassetto.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas
twitter @tobiazevi

(17 giugno 2014)