J-Ciak – Synecdoche, New York
Bizzarro. Selvaggiamente ambizioso. Stravagante. Concettuale. Frustrante. Disturbante. E si potrebbe andare avanti a piacere, perché per Synecdoche, New York gli aggettivi sono corsi a fiumi. Piaccia o non piaccia, il debutto alla regia di Charles Kaufmann, immaginifico sceneggiatore di Being John Malkovich e Se mi lasci ti cancello, da oggi nelle sale italiane, è un film che non lascia indifferenti.
Vi farà sorridere pochissimo, vi restituirà la malinconia di certe solitarie domeniche d’inverno o vi respingerà del tutto, con questa storia interpretata da un notevole Philip Seymour Hoffmann che nella prima tranche pare scritta da un Woody Allen di pessimo umore e poi cresce con cadenze cupe e surreali che volteggiano tra vita, morte, arte e amore e rammentano All That Jazz di Bob Fosse o Otto e mezzo di Fellini.
Diciamolo subito, Synecdoche – presentato a Cannes nel 2008 – non è un film facile. Negli Stati Uniti ha intrigato la critica (Manohla Dargis del New York Times l’ha definito “uno dei migliori film dell’anno”) ma certo non il grande pubblico. Tanto da chiudere con un incasso di tre milioni di dollari, pochi per una produzione che ne era costati venti. Giusto per avere un’idea delle proporzioni, How to train your dragon 2, splendida animazione di Dreamworks che uscirà in Italia ad agosto, in questa sola prima settimana di programmazione ne ha già totalizzati oltre 60.
D’altronde si capisce fin dal titolo che non siamo davanti al nuovo campione del box office: in America all’uscita una delle domande più gettonate era addirittura come andava pronunciato quel synecdoche (per la cronaca, si-nék-de-ki). La sineddoche in questione riguarda Caden Cotard, eccentrico sceneggiatore ebreo che vive con la moglie Adele Lack (Catherine Keener) e la figlia Olive a Schenectady, nello stato di New York. Nevrotico e insicuro, afflitto da una serie infinita di malattie, decide di destinare una grossa somma ricevuta in premio per mettere in scena un lavoro in cui rappresentare la sua vita.
Mentre la produzione s’ingigantisce a dismisura, la moglie se ne va in Europa con la figlia e diviene una celebre artista (cesellando opere che all’opposto del suo lavoro teatrale sono miniaturizzate fino a essere invisibili senza lente d’ingrandimento), lui s’innamora, divorzia e si reinnamora, assiste ai funerali dei genitori, cambia i titoli e moltiplica le scenografie rendendole sempre più complesse. Ma nell’arco di 17 anni, mentre gli attori invecchiano, la rappresentazione non va in scena e si chiuderà con l’unico finale possibile, la morte di Caden. Nella figura retorica della sineddoche la parte viene a rappresentare il tutto – l’esempio classico è indicare la barca con il termine vela o scafo. Ma nel caso di Caden Cotard, qual è la parte e quale il tutto? Quale la vita e quale l’arte?
Quello narrato da Charlie Kaufman – che riflette se stesso nel protagonista sia nell’identità ebraica sia nella vocazione artistica – è un viaggio raffinato attorno ai temi centrali della nostra cultura. Il film risuona di echi letterari da Borges ad Arthur Miller a Kafka, si nutre di simboli e di psicanalisi. Il protagonista oscilla tra momenti in cui è afflitto dalla sindrome di Cotard (realmente esistente) in cui ci si pensa morti o affetti da mortale decadenza, e attimi in cui viene colpito dalla sindrome di Capgras che induce a pensare che i nostri cari siano stati rimpiazzati da impostori e si avvita infine in un delirio schizofrenico. Synecdoche, New York è tentativo generoso che nei riferimenti e nello sguardo risulta molto europeo e al tempo stesso profondamente radicato nella cultura ebraica novecentesca. Un film fin troppo teso nella sua ambizione di mettere in scena la vita in tutta la sua torrenziale, infinita, effimera varietà. Soprattutto, ed è questo forse il limite maggiore, spinto fino all’inverosimile nella cupezza dei toni e degli umori.
Daniela Gross
(19 giugno 2014)