Chuqqàth…
Tra i vari episodi ed argomenti trattati nella Parashà di Chuqqàth, ve ne sono due che, sebbene separati nel racconto, si possono considerare come un solo episodio: la morte di Miryàm e di Aharòn. Nel deserto di Tzin, precisamente nella località di Qadèsh, viene a mancare per prima Miryàm, la profetessa, sorella di Moshè e di Aharòn. La tradizione talmudica sottolinea il suo livello di ispirazione divina, mettendola sempre al pari dei due fratelli, in modo da costituire una specie di triade profetica inscindibile, pronta ad agire sempre nello spirito e nella volontà divina.
Muore Miryàm, dicevamo; e con lei scompare l’acqua di mezzo ad Israele, quell’acqua che secondo il Talmùd accompagnava Israele sotto forma di pozzo itinerante e che era dono di Miryàm. Ecco quindi che con la sua morte il pozzo viene a cessare, il popolo comincia ad avvertire la mancanza dell’acqua; si verifica qui l’episodio di Qadèsh con la rupe dalla quale Moshè ed Aharòn fanno scaturire l’acqua, stavolta per loro merito.
Qualche mese più tardi, sul monte Hor, viene a mancare Aharòn, e anche la sua scomparsa segna la sparizione di un altro segno della protezione divina, ossia delle nubi sacre che proteggevano e nascondevano i figli d’Israele. Ma anche qui il merito di Moshè supplisce: le nubi tornano ad accompagnare e a proteggere Israele nelle successive marce, nel deserto, nella prima guerra di conquista contro i popoli del Néghev.
Quando, più tardi, verrà a mancare anche Moshè, con lui scomparirà la manna, che era stata il primo e più grande segno della Provvidenza, e con essa scompariranno anche il pozzo e le nubi. Da quel momento saranno i meriti di Israele nella sua terra che – se il popolo li saprà far valere – garantiranno la protezione di Ha-Qadòsh Barùkh Hu’.
C’è un antico racconto chassidico che segue la stessa linea di pensiero. È quello che ricorda come un grande Maestro, in momenti di pericolo per la sopravvivenza d’Israele, sapesse condurre i suoi seguaci in un determinato posto, dove con opportune recitazioni e meditazioni sapeva far scaturire un fuoco sacro, che era segno della salvezza divina. Nella generazione a lui successiva ancora si sapeva giungere a quel luogo e recitare le preghiere; il fuoco non si accendeva, ma tanto bastava; in quella ancora successiva non ci si ricordava più quali fossero le preghiere appropriate, ma nel ritrovare il luogo si conseguiva la salvezza. Nella generazione successiva non ci si ricordava più neanche dove fosse il luogo, ma la certezza era che il ricordare la cosa potesse smuovere la misericordia divina.
Questo vale anche per noi: mancata Miryàm, mancato Aharòn, mancato Moshè, noi possiamo solo ricordare quali doni ci abbiano portato i loro meriti; ma il ripetere, lo studiare questi argomenti, se condotto con il giusto spirito, dovrebbe far sì che anche per noi ci sia sempre la possibilità di abbeverarci all’acqua della Torà, di ripararci all’ombra della protezione di Ha-Qadòsh Barùkh Hu’, nutrendoci del cibo spirituale che la Torà e le Mitzwòth ci garantiscono.
Elia Richetti, rabbino
(26 giugno 2014)