Europa
Chi studia o è semplicemente affascinato dalla storia ebraica, non può naturalmente trascurare l’importanza che ha avuto all’interno di essa la Polonia. In questa sconfinata regione prevalentemente pianeggiante e continentale, gli ebrei furono realmente numerosi come le “stelle in cielo”, come del resto, in tutta quell’area che viene chiamata in Inglese Pale of Settlement o in Yiddish/Ebraico Tchum haMoshav. Qui hanno vissuto e prosperato zaddikim, autorevoli rabbini, intellettuali, artisti e uomini di ogni rango, per poi venire decimati dai pogrom e dalla Shoah nell’ultimo secolo, tanto che dei tre milioni di ebrei polacchi prima del 1939, ne sopravvisse solo il 10 per cento. Su una mappa virtuale – come quella creata pazientemente dal sito Virtual Shtetl – non si incontra quasi mai città, paese, o villaggio senza una sinagoga seppur in rovina, un Bet haHaim ricoperto di erba alta e sterpaglie, o una qualunque abitazione che non abbia dato i natali a persone divenute poi illustri… e anche i luoghi che ricordano qualche assassinio o eccidio purtroppo non mancano. Difficile allora determinare se la Polonia sia da relegare esclusivamente a una pagina nera all’interno della storia ebraica moderna, o se sia possibile ricordarla anche più positivamente come un luogo che ha influito in modo non indifferente alla Judentum.
Partendo però dal presupposto, che l’Ebraismo è cultura di vita e non di morte, mi sono recato tre settimane fa in Polonia per un breve soggiorno, sfuggendo i cancelli di Auschwitz e Treblinka, con il fine di comprendere invece qualcosa della Polonia post-comunista del presente, scoprire cosa restasse di quell’immenso retaggio ebraico a cui ho precedentemente accennato, e arrivare poi a realizzare se ci può essere ancora un futuro per questo luogo, nonostante il suo orrendo e compromettente passato.
Ho preso così un aereo per Cracovia, dove due miei coetanei (una ragazza polacca fidanzata con uno studente israeliano!) mi hanno gentilmente accolto e ospitato a casa propria, entrambi legati affettivamente al locale Jewish Community Centre of Krakow. Da quanto mi racconteranno anche loro, non sono pochi i ragazzi polacchi che per ragioni accademiche e talvolta ancestrali si avvicinano alla cultura ebraica e a ciò che questa ha lasciato in queste terre. Cracovia restò fino al 1919 nell’Impero Austro-Ungarico, e Kazimierz fu dal 1495 il quartiere ebraico della città, gli ebrei vi affluivano soprattutto dalla Galizia dei hassidim istituendovi scuole e luoghi di preghiera, v’erano infatti quasi un centinaio di sinagoghe e sale di studio, attualmente ne sono state conservate circa una decina, delle quali tre attive. La mattina che passo in città, la dedico a una visita pseudo-turistica di quelle visitabili: la Izaaka è del 1644, alla sua fondazione sono associate varie leggende collegate con Isaac Jakubowicz, banchiere del Re Władysław IV, da cui il luogo prende il nome, attualmente è gestita dai locali Chabad-Lubavitch che si occupano anche della kasherut, con una piccola bottega interna ed un servizio di ristorazione. La cinquecentesca Wysoka, “alta”, è stata trasformata parzialmente in libreria e temporaneamente ospita mostre e spettacoli. La Stara, “vecchia”, è difatti la più antica, il nucleo originale è quattrocentesco, è un raro esempio di sinagoga “fortificata”, tutto l’edificio ospita oggi il museo degli ebrei di Cracovia. La Remuh affiancata all’antico cimitero, è del 1557, chiamata così in onore di Rabbi Moses Isserles, nonostante le sue limitate dimensioni è tutt’oggi in uso. Le altre, che però vedrò solo dall’esterno, sono la ottocentesca Tempel in stile moresco, la Kowea Itim le-Tora, le seicentesche Kupa e Poppera, ma oltre a queste in ogni angolo del quartiere, è frequente imbattersi in strutture dove è possibile riconoscere un passato sinagogale. Dei circa ottantamila ebrei che vivevano su queste rive della Vistola, ne rimangono più di un centinaio, secondo alcune stime in aumento, ma al di là del numero effettivo della nuova popolazione ebraica, l’ebraismo è diventato a Kazimierz, il leitmotiv turistico di tutta l’area: bancarelle vendono kippot e menorot, più volte ho seguito involontariamente le tracce di una comitiva di poliziotti israeliani in visita, e scritte in caratteri ebraici occupano i menù e sovrastano le insegne di gran parte dei ristoranti e delle knajpe, che però a discapito dei nomi di kasher hanno ben poco – come confessano gli stessi camerieri all’incalzare delle mie indiscrete domande!
Dando l’addio al quartiere, incontro casualmente in una strada laterale, la Joselewicza, l’abitazione natale di Mordechai Gebirtig, cantante e poeta Yiddish, una placca con il suo volto lo ricorda, e dalla finestra nel seminterrato è possibile cogliere l’interno di un abitacolo fatiscente, dove è stato allestito in mezzo al vuoto un tavolino con sopra una foto di Gebirtig, un garofano rosso, e una macchina da scrivere con in sottofondo le sue canzoni che risuonano nell’aria. Forse come nelle storie praghesi di A. M. Ripellino, “ogni notte il poeta ritorna in quella stanza” con giornale sottobraccio e cappello, per scrivere ancora composizioni per i disoccupati e gli oppressi di oggi, nonostante il Bund non esista da tempo e tutto di quell’epoca sia “brent” bruciato, come il ghetto in cui è perito.
Da Cracovia con cinque ore di treno raggiungo Breslavia. Come si può leggere sulla guida del Touring Club la città silesiana prima della spartizione del paese era insieme a Berlino e Königsberg una delle capitali della Prussia, distrutta per il 70 per cento durante i bombardamenti degli alleati, è stata in gran parte ricostruita pressoché identica e ripopolata da polacchi espulsi dai territori orientali incorporati nell’ex URSS. L’impronta germanica rimane difatti impressa nella planimetria e nell’architettura dei palazzi visibilmente barocchi o Gründerzeit. Diversamente da Cracovia, a Breslavia la comunità ebraica si è ricostituita da qualche anno come le ceneri di una fenice. La ottocentesca e neoclassica Sinagoga Zum Weißen Storch, “del cigno bianco”, distrutta interiormente nella Kristallnacht e ridotta a magazzino dai comunista dopo, è stata riaperta e tornata a rivivere grazie al supporto di numerose associazioni ebraiche, tra cui Shavei Israel. La visiterò durante Shabbat Shlach, per la funzione di Shachrit, dove nello shtibl (l’oratorio adiacente al tempio) una quindicina di persone segue il canto melodioso e orientaleggiante del hazzan. Al termine, e dopo il kiddush, verrò invitato a pranzo dal giovane rav Tyson Herberger, un dinamico americano da otto mesi al servizio di questa vivace comunità, e uno dei principali artefici della sua rinascita.
Il giorno dopo, di buon mattino, con altre otto ore di viaggio in treno lascerò la Polonia per raggiungere Vienna, seguendo quell’itinerario che i galitzianer e gli altri cittadini austriaci dell’est, percorrevano per conquistare la capitale dell’Impero in cerca di fortuna. Sebbene sul tragitto, il paesaggio collinare della Moravia sia rimasto evidentemente lo stesso, ad accogliermi al suo ingresso non sarà la k.k. Nordbanhof descritta da Joseph Roth in Ebrei Erranti – “nelle sue sale aleggia ancora l’aroma della patria, ed essa, la stazione, è la porta aperta per tornare in patria.” – ma la moderna e meno caotica Meidling. Ho solo qualche ora a disposizione prima di ripartire, ne approfitterò per una toccata e fuga in Taborstrasse, a Leopoldstadt, ora come allora, il cuore pulsante della Vienna Ebraica: Fast food e supermercati kasher si mimetizzano ai lati e nei dintorni della via che sfocia sul Danubio, ragazzini con peyot sfrecciano sui marciapiedi con il monopattino, famiglie al passeggio in una soleggiata domenica. I nuovi “Ostjuden” sono prevalentemente di provenienza ex sovietica, e il moderno ebraico ha preso in gran parte il posto dell’Yiddish dei circoli proletari e delle taverne. Dopo aver comprato qualcosa da mangiare in un ristorante dietro il centrale Stadttempel, ritorno a Meidling per prendere il treno che mi riporterà finalmente in Italia.
Al tramonto, presso il Semmering Pass, contemplando dal finestrino il verde paesaggio della Stiria, con abeti e prati che costeggiano i tornanti della ferrovia, potrò allora addormentarmi con la speranza, che forse, l’Europa non è completamente perduta…
Francesco Moises Bassano, studente
(27 giugno 2014)