Identità: André Neher
Nel 1958 l’allora Primo ministro dello Stato di Israele, David Ben Gurion si è trovato a gestire il fatto che la nozione stessa di identità ebraica era diventata in Israele oggetto di una legislazione che avrebbe avuto implicazioni pratiche cruciali. A cinquanta “Saggi di Israele” Ben Gurion pose la domanda divenuta il titolo del lavoro del professor Eliezer Ben Rafael, che in un e-book intitolato “Cosa significa essere ebreo?” – scaricabile dai siti www.proedieditore.it e www.hansjonas.it – ha messo in luce per la prima volta in Italia quella discussione sistematica sull’identità ebraica. Ogni domenica, sul nostro notiziario quotidiano e sul portale www.moked.it, troverete le loro risposte. Oggi la risposta di André Neher.
André Neher (1914-1988). Nato a Obernai (Basso Reno, Alsazia), inizia la sua carriera come professore di lingua e di letteratura tedesca nell’insegnamento secondario. Durante la Seconda guerra mondiale vive in clandestinità con la famiglia. A guerra finita, intraprende lo studio dell’ebraismo e diventa presto uno dei dirigenti spirituali della comunità ebraica di Francia. Si consacra alla ricerca sulle Scritture ed è professore di letteratura ebraica all’università di Strasburgo dove fonda il Dipartimento di studi ebraici (1955) che ha diretto fino al 1974. Grazie al suo impegno, l’ebraico è stato insegnato in Francia come lingua moderna straniera. Dopo la guerra dei Sei Giorni emigra in Israele e si stabilisce a Gerusalemme, dividendo il suo tempo tra Israele e Strasburgo. Ha scritto numerose opere sul profetismo, la storia biblica e la filosofia ebraica. Tra i suoi lavori si segnalano: L’essence du prophétisme (1955),140 Moïse et la vocation juive (1956), Histoire biblique du peuple d’Israël, in collaborazione con la moglie Renée (Rina) Bernheim (2 voll. 1962).
Strasbourg, 22 gennaio 1959 (13 shevat 5719)
Signor Primo Ministro,141 Ho avuto l’onore, il primo giorno di Hanukkah, di accusare ricevuta della Sua lettera del 13 cheshvan 5719 e di manifestare che la considero un evento storico capace di far colmare il fossato che cominciava pericolosamente ad aprirsi tra lo Stato di Israele e la diaspora, tra lo Stato ebraico e la religione ebraica. Vorrei cercare oggi di andare al fondo del problema sollevato dalla Sua lettera.
1. È innegabile che la definizione di ebreo può essere soltanto religiosa. La sola porta di entrata nell’ebraismo è quella riconosciuta dalla religione (per nascita da madre ebrea o per conversione). Probabilmente una volta che si è nell’ebraismo, il grado di religiosità, di fede, di osservanza non ha importanza perché non ci si può sbarazzare della qualità di ebreo una volta acquisita. Ma tale acquisizione può essere solo religiosa. È precisamente questo a distinguere il popolo ebraico, a fondare la sua particolare essenza, a ispirare l’Alleanza. È ancora questo principio che garantisce allo Stato di Israele la sua funzione e il suo valore di Stato ebraico. Anche Lei ha sottolineato in diversi momenti (e in particolare nella Sua corrispondenza con il professor Shimon Rawidowicz, che è stata ora appena pubblicata nell’opera Babele et Jerusalem del compianto autore) che lo Stato di Israele è nello stesso tempo lo Stato ebraico e che da questo punto di vista tale Stato è diverso da tutti gli altri Stati del mondo. L’ambivalenza dello Stato di Israele deriva dal suo radicamento nel destino religioso del popolo ebraico. Non può essere stabilita nessuna differenza a questo proposito tra l’epoca biblica, in cui dominava la Halakhah, e la nostra epoca attuale. Nell’ebreo, separare il nazionale dal religioso è separare il corpo dalla mente (separazione che nessun organismo vivente potrebbe tollerare); è infrangere il monismo fondamentale della concezione ebraica su cui si basa la vita ebraica in tutte le sue manifestazioni, nel passato come nel presente; è distruggere il senso ebraico dello Stato di Israele.
2. Ne risulta:
a) che nessuna commissione governativa è abilitata di diritto a decidere se, sì o no, una persona è di religione ebraica;
b) che tale decisione è di sola competenza del rabbinato.
Tuttavia, è proprio tale conclusione che ci porta a un’impasse.
Infatti, se il governo non è abilitato di diritto a decidere chi è ebreo, il rabbinato non ha, in merito, autorità di fatto. Le decisioni che è obbligato a prendere non sono accettate in tutta coscienza dagli ebrei non religiosi che vi si conformano solo perché sono loro imposte. Alla lunga, tale situazione può avere soltanto conseguenze disastrose sia per il prestigio dello Stato laico che si serve di riti religiosi, che appone loro il proprio sigillo e li garantisce, senza riconoscerne il valore religioso, che per il prestigio della religione che spoglia il proprio ministero e il proprio sacerdozio del loro contenuto spirituale, che si accontenta di dichiarazioni formali e che incoraggia perciò una vita in cui le parole non sono in conformità con gli atti. Come uscire da questo dilemma che caratterizza un gran numero di problemi attuali in Israele e che pesa tanto più gravemente sul problema della definizione di ebreo in quanto tale punto chiama in causa l’unità di Israele e della diaspora?
3. Una soluzione potrebbe evidentemente consistere nella separazione dello Stato e della Sinagoga, separazione positiva e costruttiva, nel senso di quella proposta dal professor Yeshayahu Leibowitz, separazione che imporrebbe a ciascuna delle parti le proprie responsabilità nell’assunzione dei valori che sono loro propri. Ma tale separazione oltre a dissociare nella pratica, a titolo provvisorio, elementi che l’essenza dell’ebraismo lega spiritualmente (oltre al fatto che non si dovrebbe mai dimenticare che, in questa essenza, la religione precede lo Stato e ha perciò una priorità imponderabile), l’attuale clima psicologico sembra molto poco propizio per una tale soluzione che rischierebbe di ampliare ulteriormente un fossato che è necessario invece colmare.
4. Per la soluzione del problema in questione, e per tutti quelli dello stesso genere che sono in sospeso o che dovessero sorgere, propongo perciò la creazione di un’assemblea composta nel modo seguente:
a) un terzo di rappresentanti del governo dello Stato con la funzione di presentare e di circonstanziare il problema;
b) un terzo di membri scelti approssimativamente secondo i criteri che ha adottato per l’invio della Sua lettera (uomini e donne, rabbini e laici, eruditi, giuristi, medici, psicologi, sociologi, scrittori, poeti, artisti, senza dimenticare gli operai, i contadini, l’uomo della strada, come era in uso, nel nostro popolo, all’epoca della Mishnah, quando i follatori della porta del Letame, a Gerusalemme, penetravano nella Casa di Studio dei Padri del mondo, Hillel e Shammai). Questo terzo avrebbe come funzione valutare il problema al prisma delle più diverse e delle più soggettive considerazioni, alla luce del sentimento e dell’esperienza di vita di ciascuno di loro;
c) un terzo di rabbini che, dopo aver partecipato ai dibattiti, avrebbero il compito di emettere la decisione.
5. Tale soluzione avrebbe come vantaggio:
a) riservare al solo rabbinato la decisione in materia religiosa;
b) evitare che la decisione sia presa senza che un contatto concreto da persona a persona sia stato stabilito tra i rabbini e i più svariati rappresentanti del popolo ebraico;
c) creare un contatto, stimolare deliberatamente e concretamente un dialogo, e costruire un ponte tra l’elemento religioso e l’elemento laico del paese e anche tra lo Stato e la diaspora;
d) permettere al governo di promuovere questi incontri in qualsiasi momento e di dare loro tutta la dignità e la pubblicità richieste. È chiaro che le modalità di composizione e di funzionamento dell’assemblea potrebbero essere ridefinite. L’importante è che l’assemblea non sia un Sinedrio (composto esclusivamente da rabbini e Saggi), né un tribunale (bet-din, che implica una discriminazione organica tra i giudici da un lato, le parti e i testimoni, dall’altro), né il ministero dei Culti (che è soltanto un’amministrazione). Il carattere fondamentale dell’assemblea deve essere conforme al suo scopo: pur lasciando la decisione al rabbinato e l’iniziativa del dibattito al governo, deve promuovere un incontro ampiamente umano. Sono convinto che tale assemblea, funzionando con regolarità, non solo riuscirebbe a prendere felici decisioni in ogni caso particolare ma anche a elaborare principi generalmente validi per tale problema. L’assemblea riuscirebbe inoltre a creare un clima psicologico e morale che farebbe accettare dalle parti la decisione religiosa, quale essa sia, perché le parti stesse avrebbero partecipato al dibattito non come anonimi, né come giudicabili, né come amministrati ma come uomini ebrei, nell’accezione più alta del termine e con tutto ciò che comporta in fatto di diritti e di doveri. È nel tono della Sua lettera e nella preoccupazione che la sottende che ho trovato una base per questa soluzione e per questa ragione
Le esprimo, con i sensi della mia ammirazione deferente e fedele, anche tutta la mia riconoscenza.
(29 giugno 2014)