Il Medio Oriente dopo Sykes e Picot
“Mission accomplished” e “Our job is done”. Così George W. Bush e poi Barack Obama. A ben vedere, due volti di una medesima medaglia. Oggi gli Usa, come qualcuno notava, non senza sarcasmo, paiono essere stanchi del mondo. Quanti agli altri, ovvero agli insorgenti che stanno infettando quel che resta di una pantomima di Stato unitario, l’Iraq, come dobbiamo considerarli? Inarrestabili? No, semmai inarrestati. Perché così si è voluto, per più ragioni, tra le quali meschini calcoli di retrobottega politica. I militanti jihadisti dello “Stato islamico dell’Iraq e del Levante” (l’Isil, o Isis che dir si voglia), che guardano con concupiscenza e bramosia sia alla Siria che alla Giordania settentrionale, non sono da sé una forza tale da potere pregiudicare per sempre gli equilibri della regione. Ma possono alterare, e non temporaneamente, i pesi nei piatti della bilancia. Non è una questione di potenza propria. Ancora una volta vale semmai il principio opposto, quello per cui la forza mia sta nella debolezza tua. L’esercito iracheno del premier sciita Nouri Al-Maliki, quest’ultimo un politico di primaria grandezza, capace di scontentare tutti senza riuscire a costruire nessuna alleanza duratura, è fatto di reparti e di unità costati una follia all’Occidente (e ai suoi contribuenti, a partire da quelli americani) – si parla di almeno venti miliardi di dollari investiti per insufflarne le file – ma composti da soldatini di terracotta. Certo, la conquista islamista di Mosul, le minacce nei confronti di Baghdad, i calcoli verso altre e assai più ampie mete non sono, a ben vedere, solo il prodotto di una débâcle militare. Semmai è un’intera impalcatura politica, già di per sé pencolante, che rischia di crollare sotto la pressione delle sue stesse travi, tanto pesanti per chi ha dovuto sostenerle quanti inconsistenti sul piano strutturale, all’atto concreto. Nelle elezioni del 2009 gli Usa avevano sostenuto il mediocre e pavido autocrate Al-Maliki nonostante – alla conta dei voti – la prova fosse stata vinta da Ayad Allawi, un laico a capo di un partito interconfessionale e interetnico. Il nuovo premier, autoritario e con lo sguardo rivolto all’Iran, ha deluso quelle minoranze sunnite che, ai tempi del generale americano David Petraeus, la vera testa pensante nello scacchiere, lo avevano aiutato a combattere Al-Qaeda. La logica del signorotto di Baghdad è stata d’altro canto, a conti ora fatti, speculare a quella di Saddam Hussein. Se quest’ultimo, a suo tempo, lasciava gli sciiti a combattere nelle peggiori condizioni, riservando al suo gioiellino, la Guardia repubblicana, tutta sunnita, tripudi di gloria, salvo doversi tardivamente avvedere che non gli sarebbe bastata per sopravvivere all’attacco americano, l’attuale, declinate autocrate ha messo gli sciiti al posto “giusto”, consegnando l’altra componente musulmana alla polvere. Detto e fatto, poiché è la diserzione di questi ultimi ad avere alimentato le file dell’Isil che, ora, avanza usando le stesse armi, i veicoli e la strumentazione che erano stati dati in consegna ai reparti cosiddetti lealisti. I quali, per inciso, ancorché obbligati alla minorità di ruolo, erano composti, soprattutto nei loro ranghi intermedi, di ex membri della Guardia repubblicana di Saddam. Non proprio dei novellini, per intenderci, e men che meno inesperti. Umiliati dall’attuale rais sciita non ci hanno pensato due volte ad andare a ingrossare le unità degli insorgenti. Dando polpa e sostanza al conflitto che, altrimenti, non avrebbe conosciuto il grado di espansione che invece oggi misuriamo. L’Isil attualmente controlla una vasta aerea che dalla Siria orientale arriva direttamente ai sobborghi settentrionali di Baghdad. La coalizione di bande e gruppi che si fanno pomposamente chiamare ‘esercito dello Stato islamico’ hanno provveduto a dividere il territorio che controllano in una decine di province, tutte raccolte in un autoproclamato ‘emirato islamico’. Al di là della dimensione ancora effimera dell’entità, politicamente va registrato come di fatto lo stato delle cose in atto implichi il superamento della linea di confine tra Siria ed Iraq, quella tracciata con l’accordo Sykes-Picot nel 1916. Non è una cosa da poco, a ben vedere, soprattutto sul piano simbolico. E i simboli, così come i miti, in politica contano. Sta di fatto che i militanti dell’Isil hanno trovato ben poca opposizione, fino ad oggi, alla loro avanzata. Passo dopo passo hanno fatto incetta degli arsenali dell’esercito lealista. Non di meno, arrivando già da adesso a controllare alcune aree petrolifere, se saranno accorti nella loro gestione potranno da esse capitalizzare risorse più che sufficienti per permettergli di essere proficuamente operativi nei tempi a venire. Una parte degli armamenti sottratti a Bagdad sono stati già trasferiti in Siria, a quanto risulta dai resoconti degli osservatori (e dalle aperte e spudorate rivendicazioni della stessa organizzazione). Damasco e Baghdad, per l’appunto, sono intese come parte di un’unica sfera di influenza e di una medesima guerra. Peraltro l’avanzata non è stata sempre così lineare come invece si è trasformata nelle ultime settimane. Infatti, dopo diversi mesi di perduranti ma insufficienti sforzi per garantirsi e puntellare il controllo su Falluja, nonché di parziali insuccessi nella campagna volta a estendere la propria influenza sulla provincia di Al-Anbar, l’Isil si è velocemente impadronito in pochi giorni di Mosul, la seconda città del paese, di parte della provincia di Ninive e di Tikrit. Quest’ultima, per inciso, è la città natale di Saddam Hussein, il luogo dal quale provenivano i suoi sodali, tutti vincolati tra di loro da affiliazioni di clan. Peraltro, nel mentre in Iraq avvenivano queste cose in Siria l’Isil ha dovuto provvedere a un regolamento di conti interno, confrontandosi e scontrandosi militarmente con formazioni islamiste concorrenti. La regola dei ‘fratelli-coltelli’ è peraltro parte integrante della Blitkrieg, la guerra lampo, in corso. A fare la differenza, almeno in Iraq, è stato il concorso non solo dei militari sunniti passati nelle file dell’Isil ma anche l’assenso della comunità sunnita che a Mosul, come in altri luoghi, considerava l’esercito lealista come una vera e propria forza di occupazione. Intorno a questo comune sentire si è infatti consolidata una bizzarra, eclettica ma anche robusta alleanza di “volenterosi” che, in tutta probabilità, non è destinata a durare troppo a lungo ma senz’altro a fare, per quel tanto che resisterà, sfracelli. Un’alleanza composta da gruppi di baathisti, già legati a doppio giro a Saddam Hussein, da elementi del cosiddetto Esercito dello Stato islamico (nel quale militano fondamentalisti islamici di varia osservanza ma anche nazionalisti), componenti claniche – fortemente radicate al territorio di appartenenza – e milizie sospese tra la delinquenza politica e quella comune. Fanno da corona all’Isil, poi, quei paesi che non guardano con troppa affettazione a quanto sta avvenendo nei territori iracheni. Anzi, piuttosto ne alimentano le tensioni. Così l’Arabia Saudita, la Turchia, il Qatar, dove l’avversione verso lo sciita Al-Maliki ha raggiunto livelli impensabili fino a un paio di anni fa. Esattamente opposta è invece la posizione di Teheran che, invece, da tempo si sta impegnando per puntellarne il potere, temendo uno straripamento sunnita nella regione. Le vicende belliche di queste ultime settimane hanno poi raccolto e galvanizzato l’assenso di molti ulema, le autorità religiose irachene, che hanno apertamente osannato alla “rivoluzione di primavera”. Una parte di costoro parla e opera dalla Giordania, nel frattempo divenuta la base organizzativa dell’opposizione all’attuale governo di Al-Maliki. I religiosi, il cui obiettivo è di fare sì che l’Isil non capitalizzi da sé tutto il successo, si sono organizzati in un’associazione che intrattiene robusti rapporti con numerosi capi tribali. I quali controllano a loro volta il territorio iracheno, organizzatisi in un Consiglio militare unificato presente soprattutto nella provincia di Al-Anbar, ma anche in quelle di Ninive e Salah Al-Din. La complessa intelaiatura di rapporti, scambi, pattuizioni, alleanze in campo sunnita segna non tanto il perdurare del potere che fu già della casta legata a Saddam Hussein ma, da un lato, il fallimento del processo di epurazione che già gli americani, dal 2003, avevano cercato di avviare con la conquista di Baghdad, alla quale era seguita la “de-baathizzazione” del Paese, e dall’altro la scelta degli stessi sunniti di sfilarsi dal gioco politico monopolizzato dall’autocrazia di Al-Maliki e dei personaggi che ruotano intorno alla sua figura. Dinanzi all’incancrenirsi, soprattutto nell’ultimo anno e mezzo, dei problemi che il governo nazionale si è rivelato incapace di affrontare, la creazione di un fronte di opposizione armato è avvenuta attraverso la cooptazione delle tribù sunnite che continuano a controllare il territorio delle province periferiche, sottraendolo alla giurisdizione delle autorità centrali. Di fatto, se questo fattore è il cemento della forza dell’Isil, che tuttavia è solo una delle forze che si oppongono, armi alla mano, al governo, è anche la premessa per ritenere che le traiettorie dei jihadisti sono e saranno assai difficilmente definibili sotto il segno della prevedibilità. Poiché un conto è l’opzione militare, altro è quella politica. Ciò a cui abbiamo assistito, in queste settimane, è stata una vittoriosa offensiva che passa attraverso il consolidamento del controllo del territorio in mano all’Isil nelle province siriane di Al-Raqqa, Deir Al-Zur e Al-Hasakah, un’area che unita alla provincia occidentale irachena di Al-Anbar ha funzionato da corridoio logistico per spostare armi e militanti e che hanno aperto la strada verso Mosul. L’espansione del controllo dell’Isil anche in aree nel nord del Paese rende più concreto l’obiettivo ultimo del gruppo, che appare essere quello di circondare Baghdad prima di lanciare un assalto da più parti. A tutto ciò si aggiungono i proclami recenti del gruppo di voler colpire anche Kerbala e Najaf, città sante degli sciiti nel sud dell’Iraq, con il chiaro intento di scatenare una guerra settaria nel paese. Che ne deriverà? Di certo il rinnovarsi di un conflitto che, come sempre in questi casi, se alimenta innumerevoli lutti ingenera però anche un’economia del malaffare che rimpingua casse e conti correnti di non pochi giocatori in campo. Ma a ciò si aggiunge dell’altro, ed è la dimensione regionale del confronto armato, moltiplicata dalle ingerenze regionali. Di certo, tuttavia, è l’estinzione progressiva del Medio Oriente per come l’abbiamo conosciuto dal primo dopoguerra in poi. Passo dopo passo ne stiamo uscendo, volenti o nolenti, consapevoli o meno di ciò. E indietro non si torna, dinanzi alla crisi irreversibile delle sovranità nazionali, in quei luoghi, nel Mediterraneo e, sia pure senza tali cruenze, anche in molte altre parti del pianeta. Gli spazi – se non i varchi – che si stanno creando sono ancora del tutto imponderabili. Qualcuno, prima o poi, provvederà a coprirli. Il come farà la vera differenza.
Claudio Vercelli
(29 giugno 2014)