Riprendiamoci la speranza

Una redazione che si rispetti è un organismo vivente. Nei giorni di lavoro non arresta i suoi processi attivi, la sua relazione con il lettore. Ma oggi no, oggi è diverso. A metà pomeriggio, assieme a tutti i dipendenti dell’Unione delle Comunità Ebraiche, assieme a tutti gli ebrei italiani, assieme a tutti gli italiani di buona volontà, assieme a tutti i nostri fratelli di Israele, in questa ora di silenzio e di meditazione che circonda l’ultimo saluto a Eyal, Gilad e Naftali, ci saremo anche noi. E invitiamo tutti a unirsi in questa sfera di silenzio e di dolore
Quei tre ragazzi che abbiamo atteso invano, che sono i nostri figli e i nostri fratelli, resteranno fianco a fianco nella stessa terra per simboleggiare la totale, inscindibile unità che lega un ebreo a un altro ebreo e ogni ebreo alla terra di Israele.
 Il grande disegnatore israeliano Guy Morad lo dice pubblicando sul popolare quotidiano Yedioth Aharonot una vignetta atroce e folgorante. In redazione abbiamo come amici molti artisti straordinari che arricchiscono con la loro creatività quello che pubblichiamo. Il loro tratto può far sorridere, far riflettere, ma mai come oggi mi era capitato di vedere una vignetta così forte da spezzare il cuore. Tutto un popolo in lutto entra nel cimitero e fuori dal recinto una pattumiera strabocca dei nostri slogan ormai inutili, del “bring back our boys” scelto da molti per rappresentare la propria indignazione, delle nostre speranze tradite.
I mostri di un terrorismo palestinese che condanna all’orrore quotidiano il proprio stesso popolo, i ladri di vita, gli assassini della speranza devono trovare risposte chiare. Ma non basta invocare giustizia, gridare il proprio dolore. Bisogna anche riappropriarsi della speranza.
C’è un passaggio apparentemente minore, nel bellissimo editoriale di Sergio Della Pergola che appare sul numero di Pagine Ebraiche attualmente in distribuzione. In tutti questi giorni di attesa tradita mi ha accompagnato. Dei tre ragazzi rapiti si ricorda che erano indifesi e disarmati. Ma si aggiunge che erano dei pedoni.
Nelle nostre città ingombre di inutili automezzi essere un pedone non sembra forse più un titolo di merito o un criterio di rispetto. Ma ricordiamolo ai nostri figli: c’è ancora gente che percorre a piedi, a proprio rischio e pericolo, le strade di Israele.
Senza il loro cammino il popolo ebraico avrebbe forse smarrito una volta per tutte la propria anima.
Riprendiamo la strada là dove quella di Eyal, Gilad e Naftali è stata interrotta. Che il loro cammino ci faccia da guida e sia di benedizione.

gv