Le domande che restano
Sono stati ritrovati i corpi di Eyal, Gil’ad e Naftali. E poi sono stati portati a sepoltura con rito ebraico, riuniti per sempre nel cimitero di Modi’in al centro dello Stato d’Israele. Nella tradizione ebraica esistono cinque fasi nel lutto: prima del funerale, la prima settimana, il mese, l’anno, e poi tutta la vita di chi rimane. È consuetudine rispettare il massimo riserbo almeno nella prima settimana e sarebbe quindi saggio mantenere ancora il silenzio. Ma nella dolorosa contingenza, è inevitabile che si guardi in faccia alla realtà. L’unione e la solidarietà di tutti in Israele in questi momenti di tragedia è evidente e trascende il quotidiano, ma la realtà ha tante facce diverse, molteplici sono i possibili livelli di analisi, e non è facile ritrovarsi tutti insieme attorno a un unico grande consenso. Per esempio in queste tragiche circostanze, è più necessaria l’euforia del bagno di folla o l’intimità della solitudine? Si è voluto mobilitare la preghiera che è certamente il fondamento dell’essere collettivo di Israele, ma è servita la preghiera? O vogliamo sostenere che la preghiera c’è stata ma non è stata accolta? O più semplicemente che la preghiera aiuta chi prega, e oltre questo noi non possiamo capire? Chi organizza le grandi manifestazioni di solidarietà pubblica, pensa davvero solo al benessere delle vittime o cerca anche un’occasione per farsi notare? La colpa del tragico evento ricade sugli ebrei, come sostengono sempre gli antisemiti? E cosa dobbiamo pensare quando lo dice anche il rabbino Lior, che è uno dei capi dell’insediamento ebraico di Kiryat Arba? La punizione degli assassini deve coinvolgere collettivamente tutti i palestinesi della zona di Hebron e di Halhul da cui sono partiti i terroristi, oppure va limitata alla ricerca puntuale dei due rapitori? E vista la relazione certa di costoro con Hamas, va punito il centro maggiore di attività di Hamas che è Gaza, magari sospendendo l’erogazione di elettricità che ancora oggi arriva quasi tutta da Israele? Per rappresaglia, è meglio distruggere mille abitazioni di terroristi palestinesi o costruire mille abitazioni di nuovi residenti ebrei? Se è vero che la Giudea e Samaria è un “territorio conteso”, vuol dire che oltre agli ebrei vi è un’altra parte che ne contende la sovranità? E se questa parte esiste, bisogna con essa stringere maggiori e sempre più affollati rapporti di vicinato, o cercare di troncare i rapporti separandosi fisicamente magari con una barriera? Se esiste un conflitto sul territorio, dovrebbe questo spingere a maggiori precauzioni da parte della popolazione civile ebraica? Come, per esempio, trasporti organizzati più frequenti e meglio difesi? O un servizio telefonico di emergenza gestito da persone con un cervello? Se Abu Mazen non è in grado di acchiappare e consegnare alla giustizia due ripugnanti assassini che si nascondono e hanno complici sul suo territorio, ci si può fidare di lui come tutore dell’ordine in un futuro stato palestinese? E infine, cosa pensare degli analisti e dei politici che hanno elogiato la formazione del governo di unità palestinese OLP-Hamas? Parleranno di uno sporadico e insensato atto di violenza giovanile contro generiche persone innocenti, o di un tassello nell’attuazione sistematica di un programma annunciato di guerra santa finalizzata a eliminare lo Stato d’Israele?
Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme