Capire e reagire
Al termine di una settimana luttuosa e, nel medesimo tempo convulsa, dal momento in cui l’angosciante vicenda dei tre ragazzi rapiti si è risolta nel peggiore dei modi possibili, e dopo che un corollario di violenze si è accompagnanto agli esiti della tragedia, l’invito a comprendere per meglio agire (o reagire), non è in sé un esercizio di circostanza bensì un atto indispensabile. Capire non vuole dire giustificare (cosa, poi? Forse degli omicidi a sangue freddo?) ma definire che cosa certi gesti significhino nel contesto temporale e nei luoghi in cui si verificano. Al di là dell’emozione e del cordoglio, frammisti anche ad esasperazione e sconcerto, c’è poi la necessità, consegnata in prima battuta alle autorità politiche e alle istituzioni ma, in immediato riflesso a tutta la comunità israeliana e anche a quella diasporica, di articolare una risposta che riesca a sancire durevolmente l’impraticabilità – o quanto meno i costi politici insostenibili – che una prassi mortifera quale quella dei rapimenti e degli assassini di civili dovrebbe da subito comportare per i loro responsabili. Cosa, quest’ultima, che invece non è mai stata, avendo potuto operare non tanto in un vuoto di risposta da parte dei congiunti e dei connazionali delle vittime, ma nella sostanziale diffidenza della comunità internazionale verso il diritto di un Paese all’autodifesa.
Una questione in sé non nuova e che anzi attraversa tutta la storia dello Stato d’Israele, dalla sua nascita ad oggi. Poiché, e ben lo sappiamo, uno degli assi storti su cui si è giocato il conflitto per la delegittimazione della comunità nazionale ebraica è, per l’appunto, la prassi di colpirne i civili a prescindere, considerandoli, per il fatto stesso di essere persone che vivono o risiedono in un certo luogo, responsabili di un qualcosa di inemendabile. In tutta probabilità, nel cieco fanatismo degli assassini, colpevoli del fatto stesso d’esistere. Chiamiamo questa condotta, e ciò che ad essa si ricollega, «terrorismo», distinguendola da altri gesti di violenza, a volte non meno efferati, ma esercitati contro obiettivi di diverso genere, soprattutto se su un campo di battaglia dichiarato e riconosciuto come tale da tutte le parti chiamate in causa. Sul versante israeliano, ciò che qualifichiamo, oramai stancamente, come «conflitto israelo-palestinese» ha comportato essenzialmente un lungo stillicidio di atti di terrorismo. Ben più delle guerre in campo aperto. Nella sua natura più cruda, il conflitto è, per Israele, essenzialmente la somma delle violenze contro i suoi civili. Indipendentemente da chi le ha realizzate, in quale tempo storico, con quali mezzi e risultati. Alla radice di questo modo di operare c’è un assioma fondamentale: poiché Israele non ha il diritto storico, morale, civile e culturale di esistere, non lo hanno neanche le persone che ne fanno parte. Se lo Stato degli ebrei è una «entità sionista» coloro che lo abitano sono come degli ectoplasmi. Punto e basta. Dopo di che, se la violenza alla quale noi assistiamo nel medesimo tempo angoscia e ripugna, purtroppo per altri “spettatori” è invece galvanizzante. Essendo da costoro intesa come un segno di forza, determinazione e potenza. Non sono né saranno questi singoli gesti a mutare i complessi equilibri della questione mediorientale ma il rimando mediatico, per coloro che li commettono, è una sorta di garanzia di visibilità e, quindi, di credibilità, che dà sostanza a deliri come anche a rapporti di forza interni alla galassia di organizzazioni, gruppi e fazioni che vivono grazie al conflitto medesimo, di cui si distribuiscono i lucrosi dividendi.
L’incapacità di molti nostri connazionali di comprendere questo aspetto, ovvero che non si sia dinanzi a “guerriglieri per la libertà” bensì a operatori professionali della morte, è uno dei maggiori problemi rispetto a qualsiasi tentativo di fare un passo in avanti rispetto allo stallo nel quale ci si trova. Non si tratta di un fenomeno di ignoranza bensì di una vera e propria tifoseria, che se ne infischia – come nel caso di tutti gli ultràs di ogni risma e colore – della coerenza di pensiero così come del senso di responsabilità. La qual cosa indica che il conflitto si alimenta sempre più spesso non solo di elementi interni, ma di dinamiche esterne, dove l’aspettativa è, alla resa dei conti, che esso continui. Quasi che ciò costituisse una garanzia, nella sua reiterazione e perduranza, di una sorta di “regolarità” delle cose. I morti, in fondo, per certuni stanno lì a testimoniare che nulla muta e che nello status quo risiede la migliore difesa dei propri interessi. Rispetto a questo obbrobrioso e insultante atteggiamento la migliore risposta la sta dando una società civile come quella israeliana quando, evitando gratuiti perdonismi ma anche ferine vendicatività, cerca di ricostruire il bandolo della matassa della coesione collettiva. Il resto, invece, appartiene all’agghiacciante logica di chi afferma che la «volontà di morire dei nostri figli è maggiore di quella di vivere dei vostri».
Claudio Vercelli
(6 luglio 2014)