J-CIAK – Cinema, il festival non si ferma
Non si voleva provocare né fare politica. Noa Regev, direttore della Cinematheque di Gerusalemme, lo aveva ripetuto in questi giorni fino alla noia. Eppure mai programma di un festival cinematografico era apparso provocatorio e politico come quello del Jerusalem Film Festival che s’inaugura questa sera a Gerusalemme, con affondi sulla convivenza tra ebrei e arabi (“Dancing Arabs” di Eran Riklis) e sul rapimento razzista che nel 2013 a Parigi vide la morte di Ilan Halimi, quasi atroce presagio della fine di Eyal, Gilad e Naftali (“24 Hours”).
Il clima drammatico ha però indotto gli organizzatori a modificare il programma anche se il festival, come nella migliore tradizione d’Israele, non si ferma. “La recente escalation è stata tremenda per tutti noi e speriamo che ben presto arrivino giorni più sereni – ha detto il direttore Regev – Il festival andrà avanti come programmato, secondo le linee guida forniteci dal Homefront Command e dalla polizia. Lo staff della Cinematheque spera siano molti anche quest’anno gli appassionati di cinema che vorranno farci visita”. Tra gli ospiti sono attesi gli americani Spike Jonze and David Mamet e il regista coreano Park Chan-Wook.
Dunque l’evento più atteso, la prima mondiale di “Dancing Arabs”, che si doveva tenere alla Sultan’s Pool, la splendida Piscina del sultano sotto le mura della Città vecchia, non si terrà. La location, destinata a richiamare all’aperto un’ampia folla, è stata considerata troppo rischiosa, alla luce degli eventi in corso. Il film di Eran Riklis – destinato a far discutere anche perché tratto da due romanzi di Sayed Kashua, giornalista arabo-israeliano, figura scomoda e di recente al centro di un’asprissima polemica – slitta di una settimana esatta. Le altre proiezioni ed eventi – per un totale di oltre 200 film presentati – si svolgeranno invece come previsto.
Il compito di inaugurare in via informale il programma spetta dunque a un film giapponese, “Anatomy of a Paper Clip”, opera prima di Akira Ikeda, vincitore del Tiger Award al Rotterdam Festival, storia poetica e surreale di uno scapolo triste e solitario visitato da una poetica magia che si apre con l’arrivo di una farfalla. Troppo banale, di questi giorni, cercare di rintracciarvi una metafora di vita e pace.
Altrettanto emblematico, come avvio di programma, “The dance of Reality”, ultima fatica del grande Alejandro Jodorowsky, già premiata lo scorso anno a Cannes e anch’essa in proiezione questa sera. Il leggendario regista, scrittore, fumettista, surrealista e psicomago, nato in Cile da una coppia di immigrati ebrei scappati dall’Ucraina, torna alla regia dopo 23 anni e riflette sulla sua infanzia e adolescenza in un film girato a Tocopilla, cittadina sulla costa cilena dov’è nato nel 1929. La sua storia personale, quella di un bambino infelice e di una famiglia sradicata, si intreccia a elementi teatrali, operistici, mitologici e poetici in un lavoro lirico e visionario perché la realtà, sostiene Jodorowsky con il suo tocco inconfondibile, è nulla più che una danza creata dalla nostra immaginazione.
Se lo slittamento di “Dancing Arabs” al prossimo giovedì – quasi in chiusura di festival – rinvia le polemiche di qualche giorno, forse s’inizierà a discutere con un altro film: “24 Jours: La veritè sur l’affaire Ilan Halimi” di Alexander Arcady, già presentato al Toronto Film Festival. E’ il racconto straziante dell’uccisione di Ilan Halimi, 23 anni, parigino, impiegato in un negozio di telefonia, rapito il 21 gennaio del 2006 dalla cosiddetta Gang dei barbari e ritrovato ventiquattro giorni più tardi, orrendamente torturato, nei pressi di una stazione del métro. Morirà poco dopo, vittima dell’odio antisemita di una gang per larga parte composta da immigrati arabi, convinta che essendo ebreo Ilan per forza doveva essere ricco. Il suo omicidio sconvolge la Francia, dove vivono la comunità ebraica e araba più grandi d’Europa.
Il regista, ebreo algerino emigrato in Francia da bambino, s’ispira all’omonimo libro-testimonianza scritto nel 2009 dalla madre di Ilan Ruth Halimi con Emilie Frèche e ne trae un film dai ritmi serrati e avvincenti che narra l’incubo della famiglia, le centinaia di telefonate ricevute in quei giorni, gli insulti, le minacce e l’incapacità della polizia francese a gestire un crimine chiaramente di stampo antisemita.
Intanto da poco Richard Berry ha finito di girare un altro film dedicato al caso Halimi, tratto dal libro Tout tout de suite di Morgan Sportés (come Arcady ebreo di origini algerine), che ricostruisce la vicenda con un’ottica differente mettendosi nella prospettiva dei rapitori. In Francia qualcuno ha già provveduto a contrapporre i due film, ma in questi giorni il pensiero corre piuttosto a Gilad, Eyal e Naftali. Come Ilan avevano tutta la vita da vivere e sono stati uccisi dall’odio più atroce. E come non pensare che Ilan riposa proprio a Gerusalemme, dove è stato seppellito un anno dopo la morte su desiderio della famiglia.
Daniela Gross
(10 luglio 2014)