Setirot – Finale di partita
“Endgame”, finale di partita, o meglio fine del gioco. Tuttavia quello di Sayèd Kàshua non era propriamente un gioco, era/è la sua vita, la grande scommessa della sua esistenza. Sfida che ha perduto – e insieme a lui credo che siano/siamo stati sconfitti in molti – nel momento in cui ha dato l’addio con quel titolo, “Endgame” appunto, ai lettori della rubrica che teneva settimanalmente su “Haaretz”. «Ho capito che la bugia ripetuta ai miei figli – arabi e ebrei possono condividere questa nazione da uguali – è diventata insostenibile», scrive oggi, e se ne va. Sayèd Kàshua se ne va. Via da Israele. Lui che ragazzetto partì dal villaggio di Tira accompagnato dal padre per studiare da interno in un rinomato collegio di Gerusalemme aperto a ogni etnia e religione. Lui che Gerusalemme, da allora, non l’aveva più lasciata. Lui che ha voluto scrivere da sempre e soltanto in ebraico.
Ho conosciuto Sayèd a Milano, mi pare nel 2002, aveva ventotto anni. L’ho rivisto a Gerusalemme, a casa sua, poi ancora dai genitori, a Tira, per una cena di fine Ramadan, poi di nuovo a Gerusalemme, in tutto quattro-cinque volte. Nella battaglia contro chi gli rendeva difficile la quotidianità aveva iniziato a perdere qualche colpo, aveva cominciato a bere, lottava con la depressione, stava male. I “suoi” gli davano del venduto se non del traditore. Per strada veniva riconosciuto come arabo, e a volte in Israele non è affatto una cosa piacevole. Adesso che l’odio più bestiale infiamma all’inverosimile Israele e Palestina e Kàshua ha 41 anni e i figli sono grandicelli, non deve avercela più fatta. Se ne va, abbandona il campo. Da idioti dare giudizi. Lasciatemi però essere molto, molto triste, e lasciatemi dire che sono affranto e arrabbiato – per la verità lo vorrei urlare. Un dolore che tento di condividere con chi legge attraverso stralci di appunti dei miei vecchi taccuini che portano una etichetta sbiadita con il nome di Sayèd (parte di quanto segue – va precisato – è stato pubblicato in un libro Longanesi del 2004, “Israele nonostante tutto”).
… Kàshua, incontro a Milano, una calda serata estiva di pubblico dibattito. Gran delusione. Mi ritrovo di fronte a un ragazzone goffamente timido, con una oratoria prigioniera di stereotipi da vittima palestinese, privo di humour, banale, senza coraggio. Possibile che fosse stato proprio lui a scrivere le pagine dirompenti di “Arabi danzanti”?…
… a casa di Sayèd Kàshua, scrittore trentenne in jeans grigi e t-shirt blu che con ostinata insistenza si definisce israelo-palestinese. Fino a ieri, invece, diceva arabo-israeliano. Autore di “Arabi danzanti”, sradicata struggente dimostrazione di quanto sia difficile, in verità impossibile, essere se stessi in una situazione di disumana tensione politica ideologica psicologica qual è il conflitto mediorientale, Kàshua romanziere racconta un ragazzo che non ci sta a crescere soggiogato dal manicheismo di una società e di una famiglia-tribù in cui giustizia e bontà stanno esclusivamente dalla parte dei combattenti dell’intifada. Una storia che rifrange la lacerazione delle coscienze di quanti, dall’altra parte, vivono la medesima realtà. Narra la disperazione del ragazzo innamorato e ricambiato di Naomi, figlia di una militante pacifista e di sinistra che preferirebbe avere in casa una lesbica piuttosto che una ragazza che va con gli arabi. Realtà drammatiche, cariche di lacrime quando il protagonista si scontra con parenti e amici che lo vogliono obbligare a vedere negli ebrei il male fattosi popolo e nazione. Ebrei che lui per certi versi ammira, a cui vuole addirittura somigliare. Così il protagonista abbandona la scuola di Gerusalemme in cui era stato accettato, e si annienta…
… rispetto alla serata milanese, Sayèd è un’altra persona. Ha gli occhi che scintillano mentre discorre gesticolando. Ironico, autoironico come nel suo primo libro, soddisfatto di avere finito il secondo. Confessa che è tornato al villaggio della famiglia, Tira, non ce l’ha fatta: nessuno lo salutava, si sentiva un estraneo. Per questo è tornato “dagli ebrei”. «Noi Kàshua siamo una grande famiglia, diciamo pure un clan, sai com’è da quelle parti. Qui è differente, il nostro è un cognome arabo come tanti altri, l’unica Kàshua veramente famosa è una tale Amàl, grandiosa pornostar»… … attraverso un dedalo di viuzze si arriva a Bèit Tzafàfa, sobborgo arabo a sud di Gerusalemme. Edificio bianco, ristrutturato di recente. Al piano terreno la porta è spalancata. «Lei è mia moglie Najàt». Bella donna, alta, capelli color del carbone, sguardo intenso, assistente sociale in un ospedale psichiatrico. «E lei è Nay», appoggia con dolcezza la mano sulla testa di una bimbetta. L’arredamento è scarno, essenziale. «Sai, noi soffriamo di una sindrome ebraica, la sensazione di poter perdere tutto in qualsiasi momento, di dover lasciare la casa quando meno te l’aspetti. Quasi ogni giorno mi domando se sono un cittadino di questo Stato, che futuro ci sia per me»…
… pensieri. Ragiona spesso su quale differenza ci sia tra i morti di una discoteca fatta saltare per aria da un uomo-bomba e i morti uccisi dai soldati nei Territori. «I morti sono tutti uguali, anche se una differenza c’è. Quando vedo la disperazione delle nostre madri, le urla e i pianti, mi immedesimo. Quello è un dolore che conosco bene, oh se lo conosco! Noi mostriamo i nostri bambini ammazzati, con il sangue ancora addosso, i nostri abiti sporchi di quel sangue, insozzati da quel sangue. Gli ebrei non fanno vedere immagini simili in tv o sui giornali, loro non si lasciano tanto andare, nascondono quello che provano. Invece io lo so che il loro dolore è lo stesso, immenso, terribile, mostruoso». Noi e loro. Palestinesi, ebrei. Non c’è rabbia, non c’è odio, solo una sconcertante, commovente e lacerante frustrazione. «Perché Israele è mia madre, però io non posso parlarne». Dice la verità, allo stesso tempo dice una bugia. Lui, Lo Scrittore, è conosciuto e apprezzato molto più dagli ebrei che dai suoi. Lo sa. Ancora spera: «Sennò non manderei mia figlia a un asilo bilingue di Gerusalemme»…
… Sayèd, analisi lucide. «In brevissimo tempo, le condizioni sociali della mia gente sono radicalmente mutate. Da contadini siamo diventati proletari. Nei villaggi si vive secondo le tradizioni, gli usi e la mentalità del passato, continuano le lotte tra clan, la violenza e l’ignoranza: non si accorgono che quel mondo è finito, che non esiste più. Quando qualcuno se ne rende conto, allora va a vivere in città e lì continua a sentirsi inferiore, palestinese, così ritorna al villaggio, poi riparte per la città, poco dopo ricompare al villaggio. Avanti e indietro. Su e giù. Non è più né carne né pesce»…
… coraggioso. Una volta mi ha confessato, sapendo che lo avrei scritto, che «molti di noi giovani deciderebbero di rimanere qui da israeliani, e sono convinto che anche numerosi palestinesi dei Territori vorrebbero avere il passaporto azzurro dello Stato ebraico». Angosciato. «Ci diciamo palestinesi e ci sentiamo tali soprattutto per gli errori del governo israeliano, ma ci siamo abituati a vivere in una democrazia, nella modernità mentre di là», con la mano indica la direzione della Cisgiordania, «ci considerano se non proprio collaborazionisti certamente tipi poco affidabili. L’islamismo avanza e io non so quale sarà il mio destino di cittadino israeliano e temo di sapere quale sarebbe il mio destino di cittadino palestinese. Possiamo dire quello che vogliamo però noi abbiamo bisogno di Israele, abbiamo paura, siamo sradicati. Sai che cosa ci resta? Ci resta solamente l’onore della famiglia e la verginità delle sorelle. Così l’islam diventa la soluzione più facile, e gli ebrei purtroppo non se ne rendono conto».
Tra ragazzini assassinati e razzi, tra lampi di guerra e preghiere inascoltate, Sayèd se ne va. Io sono sicurissimo che sia una sconfitta per tutti. Una orrenda sconfitta.
Stefano Jesurum, giornalista
(10 luglio 2014)