Teniamo vivi gli anticorpi
Confesso che la settimana scorsa non avevo citato Mohammed insieme a Eyad, Gilad e Naftali perché con molta ingenuità avevo ritenuto opportuno non scartare a priori l’ipotesi che potesse essere stato ucciso da arabi. Parlo di ipotesi e non di speranza perché se le cose fossero andate così la tragedia sarebbe stata ancora più orribile per lui stesso e per la sua famiglia. Quanto a me, l’idea (che mi aveva sfiorato) che Mohammed potesse essere stato ucciso da qualcuno dei suoi per far ricadere la colpa su Israele non mi confortava per nulla, anzi, suscitava in me rabbia, tanto più forte quanto più impotente, per un mondo che troppe volte sembra dare ragione per principio chi ha più vittime tra i suoi; di fronte a questa logica perversa (che si è rivelata estranea all’assassinio di Mohammed ma che stiamo vedendo all’opera in questi giorni a Gaza) provo un’infinita pietà per i palestinesi vittime tre volte: vittime di un conflitto che non si riesce a fermare, vittime spesso delle loro stesse leadership e vittime di un’opinione pubblica mondiale che, occupandosi di loro solo quando sono uccisi da israeliani, sembra fare di tutto per invogliare le loro leadership a sacrificarli.
D’altra parte è orribile pensare che ragazzi ebrei possano fare cose così orribili. Ma almeno possiamo chiederci in che cosa abbiamo sbagliato e abbiamo almeno una briciola di speranza di poter fare qualcosa – magari pochissimo ma non proprio nulla – perché cose simili non si ripetano.
Di fronte a questi orrori commessi da ebrei il mondo ebraico si dimostra capace di reazioni ferme e decise. Non è la prima volta che accade: è stato così per la strage di Hevron perpetrata da Baruch Goldstein, è stato così per l’assassinio di Rabin. Un coro unanime di condanne, da sinistra a destra, dai più ai meno osservanti. Poi, però, il tempo passa, la maggioranza che ha condannato tace e pensa ad altro, si comincia a udire qualche voce isolata che plaude a quei gesti, qualche voce che si compiace di essere fuori dal coro, che inizialmente magari vuole solo provocare, ma poi piano piano, nel silenzio e nell’indifferenza dei più, si fa più forte e convinta. Può capitare (almeno, mi risulta che in qualche momento sia capitato) che sulla tomba di Baruch Goldstein ci siano più sassolini che sulla tomba di Rabin. È chiaro che questo non dimostra nulla: tutti condannano l’assassinio di Rabin senza bisogno di andare tutti i giorni sulla sua tomba, mentre i pochissimi esaltati che celebrano Goldstein sentono il bisogno di gesti simbolici continui proprio perché sanno di essere un’esigua minoranza. In ogni caso la facilità con cui una minoranza convinta e ben organizzata può vincere la battaglia dei simboli è sconcertante e molto preoccupante.
Mi auguro che questa volta saremo capaci di vigilare tutti perché gli assassini di Mohammed non trovino mai il benché minimo spazio e perché l’orrore per la sua uccisione non si sbiadisca mai nelle nostre coscienze.
Anna Segre, insegnante
(11 luglio 2014)